Gli amori d’Apollo e di Dafne

Libretto di Giovan Francesco Busenello
Musica di Francesco Cavalli

Prima esecuzione: carnevale 1640, Teatro San Cassiano, Venezia.

Interlocutori

Prologo
SONNO tenore
PANTO basso
ITATON soprano
MORFEO tenore
Dramma
TITON tenore
AURORA soprano
CIRILLA vecchia contralto
ALFESIBEO baritono
DAFNE soprano
FILENA soprano
CEFALO tenore
APOLLO contralto
PROCRI basso
PENÈO basso
PAN tenore
GIOVE basso
VENERE soprano
AMORE soprano

Coro di Ninfe. Coro delle Muse.

Libretto – Gli amori d’Apollo e di Dafne

Eminentissimo principe,
Un testo dell’immortale Virgilio m’ha persuaso a dedicare a vostra eminenza questi ozii operosi, questi trascorsi di fantasia, incorporati d’inchiostro.
Habitarunt Dii quoque Sylvas,
che se discendevano le deità a deliciare tra le amenità delle selve, tanto dispari alle giocondità dell’Olimpo, non isdegnerà vostra eminenza compiacersi del trivio di questo libro, il quale averà per sommo onore d’esser chiamato un cumulo di caratteri informi, ambiziosi d’uno spirito qualificante, ed eccelso, che li distingua, ed adorni, così che passino dall’essere di atomi, a quello di tollerabili forme.
Augusto per moltiplicare le cui felicità ebbe ad impoverirsi l’abbondanza inesausta della fortuna, quelle stimava essere prospere, ed allegre giornate, nelle quali spogliandosi della sua imperiale grandezza, s’eccedeva come privato negli orti di Pollione.
Quella vasta mole del principato sovrano, che riconosceva per soli confini l’oceano, e le stelle, era da lui depositata per qualche ora in grembo ad una volontaria oblivione; ed egli appartato da sé medesimo respirava tranquillità nella fiorita solitudine d’un giardino.
Vostra eminenza dal cui sovraumano lume ricevono la attività radiante i colori della romana porpora, e che epilogati in sé stessa gl’attributi migliori, merita regnare pregata; non averà in fastidio a qualche ora meno occupata far un passeggio per queste povere capanne, la rusticità delle quali tesaurizzerà a sé propria splendori dalla guardatura cortese d’un grande.
Io ho scritto più per entusiasmo, che per professione. scioperato l’animo nell’aprico solitario d’una diletta villa si è dato ad armonizare i numeri con una silvestre avena.
Vostra eminenza non troverà qui dentro fascicoli di mirra, o lilli delle convalli, o fiori di campi felici. Le olive speciose, i cedri del Libano sono frutti riservati all’idee dell’eminenza vostra, all’auge dei cui intendimenti non arrivano, che fulgori di maestà, e celsitudini di transcendenti.
Io non so veramente se le regole poetiche mi guarderanno col viso arcigno, ma se ogn’uno può vivere a modo suo, quando non vi entri l’offesa di dio, io credo, che parimente ogn’uno possa scrivere come li piace, quando non se ne offenda Apollo.
Ad alcuni piace lo stile latebroso, e recondito,ad altri il lasciviente, e pruriginoso; e come appresso gl’antichi l’attico, l’asiaco, ed il laconico contrastavan del primato, così il moderno liceo sta litigando quale sia lo stile migliore. Ma ogni secolo ha sposata la sua maniera di dire, e di scrivere, e questa è verità notoria a tutti i grandi ingegni, che hanno veduti i libri, ed osservati gli stili.
Vostra eminenza non è invitata qui ad un sorso pieno di questa vena scaturiente, ma insipida, e poco fresca, è puramente supplicata co’ la cortesia del labro a libarne una stilla. Passerà a questo rivolo l’essere guardato da vostra eminenza, e mentre resterà servita l’immagine sua di farsi un’istantaneo specchio di questa umilissima acqua, s’inalzerà il mio nome al più alto punto della felicità.
Si compiaccia il suo animo eroico accettare questa povera oblazione, e farla ricca col gradimento.
La mia antica, lunga, e da lei tante volte blandita servitù supplica, che a questo ambizioso ardimento sia divertito il titolo di peccato. Assai di gloria è proveduto alle ceneri mie se vostra eminenza autenticherà la mia vita per minima serva delle sue grandezze: e profondamente mi umilio a quella porpora, che arde di zelo dell’onor del signor dio.

Di Venezia li 10 Settembre 1656.
Di vostra eminenza
umiliss. e divotiss. servitore
Gio. Francesco Busenello

Argomento
Dafne non intendeva, o non voleva intendere, ciò che fosse amore. Apollo se ne invaghì, e diede opera con le lusinghe, e co’ prieghi acciò che Dafne si rendesse persuasa a compiacerlo; ma riuscitogli vano ogni tentativo si diede per ultimo ad inseguirla, ed essa capitata alle rive del fiume Penèo si trasformò in un lauro. Le altre cose nel presente dramma sono episodi intrecciati nel modo che vedrai; e se per aventura qualche ingegno considerasse divisa l’unità della favola per la duplicità degl’amori, cioè d’Apollo, e Dafne, di Titone, e dell’Aurora, di Cefalo, e di Procri, si compiaccia raccordarsi, che queste intrecciature non disfanno l’unità, ma l’adornano, e si rammenti, che il cavalier Guerino nel Pastor fido non pretese duplicità d’amori, cioè tra Mirtillo, e Amarilli, e tra Sivio, e Dorinda, ma fece, che gli amori di Dorinda, e di Silvio servissero d’ornamento alla favola sua. Gl’ingegni stitici hanno corrotto il mondo, perché mentre si studia di portar l’abito antico, si rendono le vesti ridicole all’usanza moderna. Ognuno abbonda nel suo senso, e io abbondo nel mio, e trovo in me verificata la massima del nostro divino Petrarca.
Ogn’un del suo saper par che s’appaghi.

Prologo

Scena unica
Sonno, Panto, Itaton, Morfeo.

SONNO
Già dell’alba vicina
l’aure precorritrici,
i venticelli amici
fomentano cortesi
la mia placida forza,
e le palpebre umane
(seppelliti i lor moti in dolce oblio)
resister più non ponno
alla soave deità del Sonno.
Questa è l’ora felice
da me più favorita,
in cui godo vedere
dentro un dormir profondo,
la natura sopita.
Poco lunge è la diva,
che sparge a man profusa umide perle.
Poco lunge è la luce,
che per sentier dorato il dì conduce.
Voi miei cari ministri
Panto, Itaton, Morfeo,
mentre vengono i sogni
dalle porte fatali,
servite pronti al vaticinio loro
con le vostre figure,
e con mille apparenze, e mille forme
itene a visitar chi posa, e dorme.

MORFEO
Sonno dio del riposo,
dator della quiete, e della pace,
tutti gli umani volti
io prenderò ben tosto, e com’è l’uso
delle mutanze mie
vaneggerò col sogno avanti il die.

ITATON
Ed io d’augelli, e fere
vestirò le sembianze,
e son pronto a cangiarmi in tante forme,
che non potranno i numeri adeguarle,
e spesso in un oggetto
unirò, mescerò più d’un aspetto.

PANTO
Le figure diverse
delle cose insensate io prenderò,
e tra chi dorme andrò;
del quadro, del triangolo, del cerchio
figurerò le prospettive belle,
e tutte inventerò l’arti novelle.

TUTTI
Uscite in varie torme
immagini gioconde, e strane forme,
e all’addormito mondo
portate in sogni lieti
metamorfosi mille, e mille segni,
e l’uomo frale a indovinar s’ingegni.
Qui cade il ballo de’ Fantasmi, e finisce il prologo.


Atto primo

Scena prima
Titon, Aurora.

TITON
Delicata fanciulla
delle dolcezze mie
principio singolar, fonte, e radice,
Aurora mia diletta,
perché sorgi sì in fretta?
Perché godi vedere
con feroce talento,
mentre lagrimo, o bella,
aspergersi di brine dolorose
di mia canizie il vilipeso argento?
Se di rugiade dispensiera sei,
rugiade non voler dagl’occhi miei.

AURORA
E che vuoi ch’io consumi
in sciapite dimore
la vita mia con ozïoso amante,
che in pigra volontà le forze tiene,
e gode in fredda immagine il suo bene.
Abbraccia queste piume,
bacia questi guanciali,
con essi puoi sfogar in dolci errori
tuoi disarmati, et impotenti amori.

TITON
La mia fede così
tra scherni, e sprezzi va,
sdegnosa meco sta
colei che mi ferì.
Infelice Titon
malvoluto amator,
colei, che t’arde il cor,
non vuol udir ragion?
Ma lasso ad ogn’ingiuria, ad ogni oltraggio
si fa scopo, et oggetto
chi col peso degl’anni aggrava il letto.

AURORA
Giovanetta, che tiene
il senso pien dell’amoroso affetto,
tramortisce, et isviene
s’è sforzata a tenersi un vecchio al petto,
che solo sa tra stenti, e tra rumori
tossir i baci, e barbottar gl’amori.
La possanza, che manca,
empie di sdegno il garrulo canuto,
quant’egli più si stanca,
più crede da sue forze aver tributo,
ma disingannato alfin dagl’anni oppresso
volta sue rabbie a bestemmiar se stesso.
La man tremula crede
resuscitar le forze seppellite,
ma ben tosto s’avvede,
che chi non ha vigor non può far lite,
per il temporeggiar bastano i carmi,
ma al combatter alfin ci voglion l’armi.
Però Titon non fia
tuo dispiacer, ch’il vero io ti racconti,
il tuo amor è follia,
credi a star sul meriggio, eppur tramonti;
credi alle rughe tue, credi allo specchio,
compendio d’ogni noia è l’esser vecchio.
Ma però non temere
caro Titon, affé credi ch’io t’amo,
e se teco talora
scherza, e ride l’Aurora,
non è però, ch’ella ti sprezzi, e scherna;
ti dirò la cagione
del mio sì tosto abbandonar le piume:
pregommi il dio del lume,
che volend’ei per suo diporto in terra
oggi scender a volo,
io voglia in vece sua
regger l’aurato, e luminoso carro;
e però qui ti lascio
tra i riposi felici,
e vado ad eseguir del Sol gl’uffici.
Or va’, di’ tu, che femminil bellezza
non fia pompa divina
se il sol istesso, il Sole
imperator degl’astri a lei s’inchina.

TITON
Vanne felice, ma sta’ ferma, aspetta;
guarda, che tu non perdi
le rendini, e non volga
sossopra il lume un’altra volta, e ‘l mondo,
come fece Fetonte,
abbi gl’occhi, e le man veloci, e pronte.

AURORA
Dimanda all’alma tua,
interroga il tuo core,
se mia bellezza saprà far da Sole.
Volgiti in là, e t’acqueta,
che ben saprà con ordine novello
trattar raggi di Sole un viso bello.

Scena seconda
Cirilla vecchia, Alfesibeo.

CIRILLA
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va:
stolto il mondo non sa,
ciò, ch’entro all’oro sta.
Dorme in piume innocenti
di rondini e colombe,
o pur cortese paglia
adagia i miei dolcissimi riposi
in onta vostra, o letti alti, e pomposi.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Il rio, che qui vicino
corre con piè d’argento,
comparte a questo corpo,
che rassembra del tempo il simulacro,
dolce lavanda, e comodo lavacro.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
L’invidia, o l’ambizione
non appesta i miei sensi,
genio semplice, e puro,
ch’all’innocenza altrui frodi non tesse,
non conosce perfidia, né interesse.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Questa cadente etade
sempre più mi rallegra,
perché di giorno in giorno
più m’avvicino alla beata sorte,
che per passare al ciel ponte è alla morte.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Chi scaccia il sonno a forza
traballa, et isbadiglia,
e gl’occhi stanchi, e fralli,
che per l’età chiaro guardar non ponno,
per non si contristar, stan chiusi al sonno.
Ma che torbido sogno
m’inquieta stamane.
Mi par che in questa piaggia
una donzella vaga, e delicata
si fu in ruvido tronco trasformata.
Ma colà vedo il saggio
Alfesibeo, ch’intende
di natura, e del cielo
le ragioni recondite, e profonde,
ei saprà dir ciò, che ‘l mio sogno asconde.

ALFESIBEO
Sorgi bianco principio
del luminoso giorno,
e coi tuoi vivi, e lucidi splendori
risuscita dall’ombre i bei colori.
Par che rinasca il mondo
dal grembo della notte,
e mentre dalle tenebre ei rinasce
i primi albori a lui servon di fasce.
Deh quanto è più felice
quel mondo glorioso,
che non soggiace all’ombre oscure, e rie,
e lieto gode un infinito die.
Ma che fai sì per tempo
cadente vecchierella,
il cui passo in andando
misura gl’intervalli al tuo sepolcro;
perché non dai quest’ora
al riposo, ed al sonno? Ove ne vai?

CIRILLA
Cerco te solo Alfesibeo gentile,
per intender da te quel, che portenda
un sogno, che m’apparse poco dianzi.

ALFESIBEO
E quale sogno fu?

CIRILLA
Or l’intenderai tu.
Pareami che nel suol
s’abbarbicasse il piè
d’una ninfa gentil,
ch’arbore divenuta in un momento
rumoreggiasse con le frondi al vento.

ALFESIBEO
Altrettanto vid’io
già poco d’ora in sogno,
e interpretar non so tanta figura.
Andianne, e sia mia cura
di ritentar gl’antichi studi, et arti,
per ritrovar un così occulto senso,
che istupidir mi fa più, che ci penso.

CIRILLA
Vanne, che passo passo
l’andar tuo seguirò.
Tremulo piè non può
mover celere il corso,
e vicino al suo fine il moto umano
tardo vien, lento move, e va pian piano.

Scena terza
Giove, Venere, Amore.

GIOVE
Figlia, le cui bellezze
illustrano di raggi il cielo, e gl’astri,
qual novello cordoglio
osa introdur i pianti
negl’occhi tuoi divini?
Come, come son fatte
fonti di stille amare
le fontane del lume?
Qual dispiacer promuove
il tuo bel petto ad esalar sospiri?
Come nella tua fronte,
che di serenità sovrasta al sole,
osa mestizia oscura aver soggiorno?
Deh non scenda all’inferno
l’allegrezza del cielo,
né godan mai quei spirti indegni, e rei
veder piangenti in paradiso i dèi.
Se consolar si ponno
dell’alma tua l’angosce,
tutte si tenteran l’arti, e le prove,
tutto farà sol per giovarti Giove.

VENERE
Quel temerario Apollo
ch’ardì mostrarmi ignuda
al mio zappo marito,
quand’io stavo con Marte
ad imparar della milizia gl’usi,
sempre più mi schernisce,
e dalle offese mie cava lo scherzo,
né comparir può in cielo
l’amorosa mia stella
senza sentir da lui gl’oltraggi, e l’onte.
Padre, e signor ti prego,
mentre puoi ciò, che vuoi,
e vuoi sempre giustizia,
con una voce sola
leva il mal, lui castiga, e me consola.

GIOVE
Non ti turbar, o Citerea gentile,
sono scherzi giocondi,
non ingiurie, e dispetti
quelli,che teco adopra il biondo dio.
E s’egli chiamò tutta
la stellante contrada,
perché vedesse le tue menbra ignude,
fu perché non essendo egli capace
di tanta gloria in vagheggiarti solo,
chiamò compagni tutti gl’altri numi,
e gli diedero aita,
per non restar confuso in tanti lumi.

VENERE
Io vorrei castigar tanta baldanza,
vorrei fiaccar l’ardire a tanto orgoglio.
L’offesa perdonata
provoca l’offensore
a farne una maggiore,
chi vendica la prima
non ne riceve d’altre.
Chi si sa vendicar, sempre è sicuro,
che la vendetta armata
l’onor circonda di custodia, e muro.

GIOVE
Al tuo possente figlio
imponi le vendette.
Egli ha ben tanto ardire,
e può vibrar tal armi,
ch’Apollo sentirà del tuo disdegno
qualche per sempre memorando segno.

AMORE
Comanda, o genitrice,
ch’io farò, non dirò,
e ‘l sole oltraggiator castigherò.

VENERE
Vattene figlio va’,
nel tuo valor la mia vendetta sta.

GIOVE
Amore impiega l’armi,
contro Apollo insolente,
ma guarda, ch’egli alfin non ti disarmi,
onde poi senza l’arco, e senza i dardi,
con cui costumi di ferir gl’amanti
non venghi il cielo a riempir di pianti.

AMORE
Io torrò l’arco a lui,
e lo farò restar di glorie privo.
Madre fo’ questo editto,
oggi mesto, ed afflitto
della Tessaglia in fra le selve, e i sassi
di corruccio vestito il sol vedrassi.

Scena quarta
Dafne, coro di Ninfe.

DAFNE
O più d’ogni ricchezza
prezioso tesoro,
disoccupato core
dalle voglie d’amore,
gradita libertade,
volontà non offesa,
contento sopraumano
aver l’arbitrio sano,
anima, che non sente
sforzo, che tiranneggi,
veramente confessa
esser cielo a sé stessa.
Mentre limpida, e pura
concede a’ suoi pensier liberi i voli,
core, che non soccombe
all’amorosa forza,
felicità sospira in vece d’aure,
e se palpita mai
lo fa per allegrezza, e non per guai
aprimi l’uscio d’oro
condottiera del dì lucida diva,
sempre mi troverai
in libertà sicura
del velenoso amor senza paura.
Espero, che racchiudi
del sole,che tramonta i raggi stanchi,
tu non mi lascerai
in preda a notte sospirosa, e trista.
Amore non m’avrà sua prigioniera,
vedrammi in libertà l’alba, e la sera.
Erbe dalla rugiada
vagamente imperlate,
vegetanti smeraldi,
dilettose verdure,
riconoscete Dafne a tutte l’ore
inimica d’amore.
Mormoranti ruscelli
ondosi specchi, e cristalline fonti,
da lubrico zaffir correnti vene
di benefatto argento,
preziosi, e dolcissimi canali
non ho timor degli amorosi strali.
Colle aprico,
bosco ombroso,
verde prato,
siano delizie mie, siano diletti,
stiano in disparte gli amorosi affetti.
Porgimi ninfa bella
l’armonica mia cetra,
ch’io vuo cantar con giubilosi modi
dell’alma libertà le vere lodi.
Libertade gradita,
balsamo della vita,
che ne preserva il core
dall’infezion d’amore,
l’alma mia ti richiede,
che in lei tu voglia stabilir tua fede.
Tu sei l’unico bene,
che la vita sostiene,
tu sei la sola pace
della vita fugace,
che dove tu non vivi
i cori in servitù d’alma non privi.
Stiansi pure perdute
e ricchezza, e salute,
che se ben ricco, e sano
vive lo stato umano,
se cinto è da catena,
venen gli è d’oro, e la salute pena.
Ma però non ancora io son contenta,
se con danze, e carole, o belle ninfe,
del mio libero core
non si celebra il gaudio senza fine.
Danzate con pastori
liberi dagli amori.
Schietta dolcezza,
pura allegrezza
sian de’ Tessali cori i godimenti,
né lascivo sospir mai turbi i venti.
Qui cade il ballo.

CORO
Danzate, o ninfe, e pastorelli, e siano
le vostre danze sacrifici al genio,
pria che l’età ci adduca al freddo senio,
di letizia gentil segni si diano.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl’animi tessali.
Deponga l’alma ogni gravoso incarico,
mentre or gaie allegrezze si rinnovano,
mentre felici i nostri cori provano
vacanza d’ogni torbido rammarico.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl’animi tessali.

DAFNE
Musica dolce, musica tu sei
vera similitudine celeste,
ecco al suono del ciel fan le foreste,
e imitati da noi ridono i dèi.
Seguite pur l’incominciato ballo
giulive ninfe, allegri pastorelli,
facciano i piedi vostri i paralleli
a chi lassù non pon mai piede in fallo.

CORO
Or rinnoviamo i lieti balli, e vengano
dal ciel sopra di noi vere letizie,
chi vive senza amor sempre ha delizie
dunque d’amar i saggi cor s’astengano.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl’animi tessali.
Chi sprezza libertà stolto si nomini,
servitute d’amor indegna, e ignobile,
chi libero non è, non può esser nobile,
la sola libertà fa illustri gl’uomini.

Scena quinta
Filena. Dafne.

FILENA
Quel bel fior di giovinezza,
che le guance t’invermiglia,
quel candor d’alta bellezza,
che le mani, e ‘l sen t’ingiglia,
l’oro fin, che per vaghezza
ne’tuoi crini s’assottiglia,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.
Quel tesor del labbro bello,
che vezzozo coralleggia,
quel loquace spiritello,
che tra perle rubineggia,
quel purpureo serpentello,
che dolcissimo lingueggia,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.
Sconsigliata verginella,
tu non sai del tempo i danni,
gl’aurei titoli di bella
calca alfine il piè degl’anni,
questa età fresca, e novella,
vana Dafne, non t’inganni,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.

DAFNE
Quanto più breve è il termine vitale
tanto più lietamente
spender si deve in dilettosi uffici,
cara amica Filena, e tu che dici?

FILENA
Dico, che senza amore
la vita è un fumo oscuro,
una nebbia infelice,
e che la gioventù,
april del viver nostro,
se non consente al sangue,
e se non s’innamora
dolce non gode, e consolata un’ora.
Le vive granatiglie
delle tue guance belle,
se non sono baciate
da innamorata bocca
cadran sfiorite alfine.
La bellezza invecchiata
da tutti è beffeggiata.
Ninfa non vagheggiata, e non goduta
è una morta pittura,
che soggiace alla polve,
è una fredda sembianza
una tella insensata,
che in superficie vana
conserva l’ombra sol di cosa umana.
Dafne, credilo a me,
tardi ti pentirai,
vorrai gl’amanti, e non li troverai.

DAFNE
Pur sempre mi tormenti
con queste tue follie,
e vorresti condurmi
a tradir la mia vita,
a porre in servitù l’arbitrio mio,
se d’altro non mi parli, io parto, addio.

FILENA
Ferma insipida ninfa,
non esser aspe agl’ottimi consigli.
Se non ami, che vuoi far?
Chi non conosce amore
serra nel petto un ozïoso core.
Ti produsse natura,
il cielo ti creò,
perché fosse il tuo fiore
nell’alba de’ tuoi dì colto, e goduto,
e tu aspetti l’occaso
dell’inutile età sol per vedere
secco il fior di bellezza
cadente, e infracidito
dal vilipendio altrui mostrato a dito.
Ho pietà della tua
stolidità insensata:
sappi superba sappi,
che i veri documenti
chi presto non riceve
diffuso in pianti il pentimento beve,
e negl’anni canuti
la volontà pentuita
non sa tornare indietro
la già trascorsa vita,
ed il battersi il petto
ed in singulti consumar i fiati
non reca giovamento a disperati.
Una volta si nasce,
una volta si more,
lo spazio della vita
è una carriera sola.
Godiam la luce infin, che dura il giorno,
che l’andata mortal non fa ritorno.

DAFNE
Orsù non replicar, Filena mia,
ch’io vo’ di queste selve
godendo bell’ombre, e i grati orrori,
e lascio te con tuoi cantati amori.

Scena sesta
Filena sola.
Come folle sei tu,
superba, e pertinace gioventù.
Il colorito pomo,
che in alto ramo è nato,
sdegna d’esser toccato
dalle mani dell’uomo,
ma cade a terra alfin da’ rami infermi,
e la superbia sua finisce in vermi.
Così pazza donzella
non vuol ch’altri la miri,
e par ch’ella s’adiri,
se d’amor si favella,
ma se i nobili amanti aborre, e sprezza,
alfine è de’ plebei vile dolcezza.
Imparate, imparate
donne finché potete
il grano raccogliete
nel calor dell’estate.
Qualche frutto all’autunno ancor si coglie
ma fa quella stagion cader le foglie.
Ogni pianta più vile,
se d’ottobre è spogliata
torna ad esser ornata
dal bel fiorito Aprile,
ma nell’uman brevissimo viaggio
si gode sol per una volta il maggio.
Donna amata, e servita
dal gentil amatore
non frapponga dimore
all’amorosa aita;
dura un sol lampo il fior del nostro sesso,
e la vita del lampo è un solo adesso.
Il ben dura momenti,
ma duran sempre i guai,
né più ritornan mai
i passati contenti,
chi convien soggiacere ai casi umani
rise ieri, oggi piange, e muor dimani.

Scena settima
Cefalo, Aurora.

CEFALO
E quando farà il dì,
che ti piaccia qua giù
scender, luce mia sola, Aurora mia,
quando il punto verrà,
ch’il tuo Cefalo avrà
quel con tanto ardor sempre desia.
Tormentoso aspettar
quando finirai tu
coll’arrivo fatal della mia vita?
Che più sperar non so,
resister più non può
l’anima da sospiri indebolita.
Lacrimato mio ben
pon fini a’ miei martir,
discendi a consolar l’angosce mie;
vieni dal puro ciel
in braccio al tuo fedel,
fa’, ch’io goda beato un solo die.
Conosco ben, conosco,
che l’amar una dea
trascende troppo le fiacchezze umane,
castigato rimane
l’ardimento del core
dal mio proprio acerbissimo dolore.

AURORA
Ben è cieco Titon, se crede, ch’io
siasi per tempo sorta,
per regger inesperta
del pianeta maggior l’aurato carro.
Altro mi punge il core,
che dimostrare al mondo
d’esser vicaria in ciel de’ rai del sole.
Ho fabbricato un’apparente scusa
sul discender d’Apollo in queste piagge,
ma in terra m’ha condotto il sol desio
di veder il mio Cefalo, il cor mio.

CEFALO
Se il lume non m’abbaglia
ecco la mia diletta;
sì ch’ella è dessa, sì:
mio cor lascia i lamenti,
risorgi da tormenti,
mira quegl’occhi cari,
raffigura il dolcissimo sorriso,
divinizza il tuo foco in quel bel viso.

AURORA
Cefalo?

CEFALO
Aurora mia?

AURORA
Mio dolce amico?

CEFALO
Ohimè quanto indugiasti
a venir, vaga mia,
la penosa dimora
ha fatto del mio core anatomia.

AURORA
Ho finto con Titone
d’ascender l’orbe quarto,
per sostener le veci oggi del sole,
mentr’egli è sceso in queste selve amene,
e intanto son venuta a te mio bene.

CEFALO
Non nominar Titone:
il suo nome è un coltello,
che passa ohimè per questi orecchi , e vien
a far dell’alma mia strage, e macello.

AURORA
Pazzarello sei tu: quel vecchio adunque
agita la tua pace,
e quel canuto mento,
in cui decrepita registra gli anni
ti move gelosia?

CEFALO
Tu dormi seco, ed io
qui per le selve vo mendico amante,
ed egli tra guanciali agili, e lievi
gode in piacer eterno
del tuo bel seno l’incarnate nevi.

AURORA
Io non lo bacio mai.
Quelle barbute, e stolose labbra
son boschi odiosi,
né in quelli mai potrei
inselvar, imprunar i baci miei.

CEFALO
Deh non parlar de’ baci,
che quella soavissima parola
mi martirizza dolcemente i sensi.
Titon, Titon è il tuo,
il solo, il caro, il fortunato amante.

AURORA
So, che vaneggi, o Cefalo gentile,
e mi pungi da scherzo, e d’allegria.
L’amante giovibetto
non dée temer del vecchiarello inerme;
amor può dar a tutti
guiderdone, e mercede,
ma non può sua virtute
far amabili mai chiome canute.
Ben da dovero stolti
son gl’amanti canuti,
se in paragon de’ lor rugosi volti
credon, ch’un giovinetto si rifiuti.
Son sempre mal veduti, e mal graditi
vecchi Narcisi, e Adoni rimbambiti.
Sappia l’isipida piuma,
che la lanugine d’oro
è quella, che alle ninfe il cor consuma
in dolce, e soavissimo martoro.
Cedano i padri pur, cedano ai figli,
ch’amor ricerca forze, e non consigli.
La fresca giovanezza
è ‘l giardin degl’amori,
e la fredda, ed insipida vecchiezza
è l’arca dei dispetti, e dei rancori,
mentre non può allenar le forze frali
proverbi intreccia, e riferisce annali.
E se ben rade, e cava
il pel pungente, e vecchio,
però gl’anni non scema, e i dì non lava,
né bugie gli può dir l’amico specchio.
Né l’ambra, negli odor più delicati
pon far tornare indietro i giorni andati.
Disamar dolce pomo,
per gradir rozzo sorbo
è un tralasciare in abbandono l’uomo,
è infracidirsi per gustare al corbo
insomma ninfa, ch’ama un vecchio frale,
mostra de’ cimiteri esser rivale.
Però Cefalo mio,
non temer di Titone,
né sospettar, che la mia fede pura
abbia lusinghe in bocca, e frodi in seno.
Te solo adoro, e per te solo amando
in dolcissima fiamma ardo, e sfavillo;
in me t’impresse amor, né può stampare
impronti differenti un sol sigillo.
Oh dio, tu pur vaneggi,
e formi sospettando
un ideale inferno
alla tua fantasia,
e pur tu solo sei l’anima mia.

CEFALO
Credo, che m’ami sì, ma il cor vorrebbe
un giuramento, sai?

AURORA
Giuro per questi rai ,
che m’han trafitta l’anima innocente,
e giuro finalmente
per te stesso a te stesso,
che in questo core ha scritto il cieco dio,
Cefalo sei il mio ben, l’idolo mio.

CEFALO
Andianne adunque, o bella,
e nell’antro più cupo
confessino gl’orrori
di non invidiar la luce al die,
mentre nel fosco loro vederassi
meco scherzando in dilettosa guerra
sul meriggio albeggiar l’Aurora in terra.

AURORA
Andiam, Cefalo, andiamo,
e non più le parole,
ma il fatto t’assicuri,
e l’opra stessa i miei tormenti giuri.

Scena ottava
Procri sola.
Volgi, deh volgi il piede
bellissimo assassin della mia fede.
Dico rivolgi il piè
o mancator, perché
dal tuo novello, ed invocato amore
non spero più, che tu rivolga il core;
sia pur la tua rival de’ sensi tuoi,
e di pensieri il punto, ed il compasso,
e lasci a me sol del tuo piede un passo.
Io son pur quella Procri,
che dagli amori tuoi delizia fu.
Lassa, io m’inganno, io non son quella più.
O spergiuro infedele,
io nell’Aurora tua
sospiro la mia sera,
e vedo il disperato mio desio.
Nell’altezze di lei l’abisso mio,
e pur ancora io t’amo,
il tradimento, ohimè mi svena il core,
e al mio dispetto adoro il traditore.
Così povero adunque
è il cielo di bellezze,
che cercano le dèe gli amanti in terra?
Ha penuria l’Olimpo
d’amabili sembianze?
Né sa l’aurora ritrovarsi amanti,
s’alle mie calde innamorate voglie
le dolcezze non ruba, e ‘l ben non toglie.
Cefalo torna a me,
io son colei, che tua diletta fu,
lassa, io m’inganno, io non son quella più.
Ohimè la gelosia
mi stimola a bestemmie, ed a furori.
Ma perch’è diva l’alta mia rivale,
religione, e riverenza insieme
sul fondo al core i miei singulti preme,
ma ‘l peggiore del mio non ha l’inferno.
Pon maledire i miseri dannati,
io trafitta, ed ardente, e lacerata
dannata son, e maledir non possso.
Cefalo riedi a me,
io son colei, ch’idolo tuo già fu,
lassa, io m’imganno, e non son quella più.
Deh ricevete, o selve,
accettate, o deserti
d’un pianto amaro il tacito tributo:
eccessivo è il dolor quand’regli è muto.

Atto secondo

Scena prima
Apollo, coro di Muse.

APOLLO
Discendo dall’Olimpo
in queste piagge apriche
favorite così da raggi miei,
che non veggio del mondo,
più bella mai, più dilettosa parte.
Non può increscer il cielo
aggregato immortal di tutti i beni,
ma se potesser mai
fastidirmi le stelle,
qui tradurrei la sede, il caro e ‘l lume:
così Tessaglia bella
sarebbe al sole eclittica novella.
Rassomiglia così, così confronta
questa bella contrada
con le celesti amenitade eterne,
che se potesse equivocare un dio,
deluso all’improvviso
crederei questo loco il paradiso.
O Tempe, o vaga Tempe,
sito delle delizie,
prospettiva del cielo,
pompa dell’universo,
metropoli di Flora,
bel teatro d’aprile
scena di primavera, idea degl’orti.
Il fiume mormora,
l’acque sussurrano,
le frondi brillano,
con dolce saltellar l’acque zampillano.
Soave musica,
concento armonico,
gli augei gorgheggiano,
e col canoro fiumicel gareggiano.
Umanità mortale,
ben sei cieca ignorante,
se dalle forme del tuo basso mondo
non argomenti il bel, che lassù regna,
che se qui, dove alfine
dividono tra lor la morte, e ‘l tempo
le spoglie della vita,
son le cose sì belle,
quale stimi lassù l’Etra, e le stelle?
Dirimpetto a’ tuoi sguardi
stanno i terreni oggetti
quasi perpetui cenni,
che t’additano il bel dell’alte sfere.
Le più belle pitture
stanno sempre velate
da preziosa, e nobile cortina;
in questa guisa appunto
delle pompe del cielo
la luce è la pittura, e il mondo è il velo.
Or pensa, or pensa tu,
la beltà, ch’è lassù,
e quali sian quelle mirabil opre,
s’è così bello il vel, che le ricopre.
Ma vo’ per mio diporto
per questo bosco esercitar gli strali,
e quest’arco famoso,
che distrugge i pitoni, e atterra i mostri,
voglio incurvar contro le serre erranti.
Oprar certo bisogna,
che come star non ponno uniti insieme
la memoria, e l’oblio,
così mai s’avvien l’ozio con dio.
Voi ritornate, o mie dilette muse,
del sacro monte alla beata cima.
Di vostra pura ed immortal bellezza
innamorate i peregrini ingegni.
Ogni nobile fronte per voi sudi,
perché vincon la morte i vostri studi.

CORO
Sulle rive d’Ippocrene,
sotto l’ombra di bei mirti
nube va;
resta solo, caro Apollo,
senza te la nostra schiera
ben non ha.
Torna tosto, torna febio
orna il colle, illustra il fonte
di splendor;
la Tessaglia non ritardi,
e non rubi agl’occhi nostri
i raggi d’or.
Armonia di glorie, e lodi
celebrando il tuo decoro
canterà,
il tuo nume da noi tutte
veri ossequi, umili affetti
sempre avrà.
Da te pende, da te nasce
quel che l’uom dopo la morte
vivo fa,
quell’onor che tu comparti
per girar di lustri, ed anni
fin non ha.
Tutto invecchia, tutto cade,
si corrode il duro bronzo,
e ‘l marmo fin;
la virtù contrasta sola,
con l’etade, con la morte,
e co ‘l destin.

Scena seconda
Alfesibeo.
Ahi, che gli studi, e l’arti
praticati da me più d’una volta,
per intender il sogno,
che trasformò in un arbore una ninfa,
mi vaticinan precipizi, e mali.
Il cielo in varie guise
parla con noi mortali.
Son le sue voci, e fulmini, e comete,
e terremoti, e sogni,
e tutto quello, che trascende e varca
l’uso della natura,
col partorir de’ mostri
vien per addottrinar gl’ingegni nostri.
La ninfa trasformata in verde pianta
accenna, che le pertinace umane,
che sprezzano del ciel la voce eterna
sono alfin castigate,
e in selce, o in duro tronco trasformate.
Deh voglia il cielo, ch’oggi
la Tessaglia non vegga
spianato il sogno in nostro danno espreeo.
Cerco la vecchia per narrarle il caso,
né so, dove trovar la possa: in tanto
cielo pio divertisci il nostro pianto.

Scena terza
Amore, Apollo.

AMORE
Io voglio certo
far le vendette
della mia genitrice;
a questi dardi,
a questa face
ogni grand’opra lice.
Voglio ch’Apollo
senta nel core
del mio poter la forza,
perchè ‘l mio foco
dove si apprende
non mai non mai, s’ammorza.
Tra queste selve
per suo diporto
Apollo vien talora;
voglio ferirlo
con questo dardo,
per beffeggiarlo ancora.
Ei fa del grande,
superbie adopra
contro la mia possanza.
Oggi sper’io,
che sua alterezza
debba cangiar usanza.

APOLLO
Vanne, Amor, col tuo dardo
a ferir l’ombre, a saettar i venti,
nudo guerriero,
soldato in fasce
Marte bambino,
campion lattante,
gran cavalier, che pargoleggia in culla,
nume pigmeo dell’ozio, e dio del nulla.
Io so d’arco, e di strali
esercitar onnipotenti prove,
e all’utile comun donar le forze.
Eccoti là tra ‘l sangue, e tra ‘l veleno
estinto di mia mano
in gloriosa, e nobile tenzone
l’orribile pitone;
quel mostro de’ serpenti
peste delle contrade,
terror dell’universo
oggi con breve guerra
ho pur co’ dardi miei confitto in terra.
Io ch’Apollo mi chiamo
con opere sì belle
quasi con vivi, e lucidi colori
la mia divinità dipingo, e mostro
agl’occhi de’ viventi,
e mi acclaman lassù l’eterne menti.
Vanne, Amor, col tuo dardo
a ferir l’ombre, a saettar i venti.

AMORE
Così, Apollo, tu mi chiami
un imbelle garzoncello
scioperato, e sfacciatello?
Che sì, Febo, che sì
che ti faccio pentire in questo dì.
Così picciolo, e minuto
come appunto tu mi vedi
ho sconvolte ognor le fedi
e degl’uomini, e del ciel.
Oggi tu ancora mi sarai fedel.
Con la punta pargoletta
del men forte de’ miei dardi,
vuo far sì, che pianghi, ed ardi.
Tu non me ‘l credi no?
Proverai, sentirai s’io lo farò.
Tu se’ Apollo, tu se’ il sole,
sei chiamato il biondo dio,
ma che forse non son io
del tuo nume assai maggior,
ti pentirai d’aver schernito Amor.

APOLLO
Vanne in grembo alla mamma,
va’, va’
e fuggi il caro latte, il dolce umore;
non t’adirare Amore,
sdegno sì picciolo
sì angusta collera
il riso movono;
quando mai videsi
da un’ira minima
nascer l’ingiuria.
(qui Amor ferisce Apollo, e fugge via)

Scena quarta
Apollo, Dafne.

APOLLO
Ma che veggio, che scorgo?
Ohimè che dolce raggio
lampeggiator di glorie agl’occhi miei
balenator d’imperïosa luce
veggio tra quei cespugli?
O bellissimo viso,
o ninfa leggiadrissima, e gentile,
questa è la vaga Dafne,
la stella delle selve
la deità novella
d’ogn’altra ninfa bella.
Ahi come in un momento
ferito il cor mi sento,
ahi come in un istante
amor da me oltraggiato
avventa in me l’acute sue saette,
e vede nel mio mal le sue vendette.
Bella ninfa
volgi il guardo
saettami sul core un raggio omai
di quei soli gemelli,
ch’a questo caro dì fan doppio lume,
stampa sol col mirarmi
un paradiso novo
su quelle luci mie;
passi, e venga l’imago
del tuo bel viso ad arricchirmi il core,
e vinca te, se già me vinse Amore.

DAFNE
Più tosto cadami
dal seno il cor,
che persuadami
voce d’amor.
E perché tu t’accorga,
ch’io non voglio ascoltarti,
impenno l’ali al piè
fuggo da te.
Più tosto cadami
dal seno il cor,
che persuadami
voce d’amor.
Venti sull’ali vostre
portate il corso mio,
perché non vuò ascoltar,
chi vuole amar.
Più tosto cadami
dal seno il cor,
che persuadami
voce d’amor.

APOLLO
Dafne, chi ti consiglia
a fuggir sì veloce
da me, che sono un dio?
Ferma gl’alati passi,
acciò che le mie braccia
ti possan far dolce catena al collo;
gradisci omai l’innamorato Apollo.
Apollo io son, quel biondo
indorator de’ giorni,
distinguitor dell’ore,
delle stagioni padre,
de’ pianeti monarca,
mastro dell’armonie, nume de’ carmi,
piegati dunque, o Dafne, a consolarmi.
Io sono il sol, e miro
me medesimo diviso
nelle tue luci ladre.
Vorrei pur con un bacio
recuperarmi, o cara,
con tentativi amorosetti, e novi,
lascia ben mio, ch’in te me stesso io trovi.
Suol la turba devota
baciar umilmente
le immagini dei dèi,
or vedi, o Dafne, vedi,
qual ventura t’innalza,
mentre d’amor l’acuto stral mi tocca,
tu puoi d’un vivo dio baciar la bocca.
Metamorfosi strana,
appendono i mortali
voti alle deitadi,
e io pur son condotto
idolatrante dio
tra singulti di foco, e pianti amarmi
mia bella Dafne, a fabbricarti altari.
La deità, che valmi,
se una donna m’accora?
Ma s’è pur mio svantaggio
l’esser nume celeste,
io mi disimmortalo
diseterno me stesso, e in dolce sorte
per goderti cor mio soccombo a morte.
Ah Dafne, ah fuggitiva,
al mio dispetto io devo
viver eternamente;
non posso andar in polve:
non ponno gl’alabastri
delle tue mani immacolate, e pure
esser le mie soavi sepolture.
Non fuggir mia diletta
volgimi un guardo solo,
mostrami per passaggio
un lampo ancorché irato
di quei beati lumi.
La mia luce abbagliar le viste suole,
or nelle stelle tue s’abbaglia il sole.
Accogli, accogli un solo
de’ miei sospir dolenti,
bevi un semplice sorso
delle lagrime mie,
che diranno al tuo core,
ch’a tua beltà nata a ferir gli dèi
inchino lo splendor de’ raggi miei.

DAFNE
Lascia Apollo ogni speranza,
torna in ciel, se tu sei dio,
non tentar la mia costanza,
ch’ascoltar non ti vogl’io:
porta in pace i tuoi martir
verginella io vuo morir.
Se dei giorni il lume sei
l’occhio destro di natura,
non voler, che gl’onor miei
sian sepolti in notte oscura,
nato sei per illustrar,
e me sola vuoi macchiar?
Tu sei biondo, come l’oro,
e mia fama vuoi far negra,
di salute è il tuo tesoro,
e vuoi farmi inferma, ed egra,
l’uom mortale or che farà,
s’è sì rea la deità?
Delle sante verginelle
tu sei pur l’eccelso nume,
come vergini son’elle,
se lascivo è il tuo costume?
Se impeccabile sei tu,
non mi usar insidie più.
Ma ostinato più che mai
deflorar vuoi mia bellezza,
vuoi col lampo de’ tuoi rai
abbagliar mia debolezza.
Se nel labbro ho dolce il mel,
non vuo darlo a te crudel.

Scena quinta
Apollo.
Era miglior consiglio,
ch’io non mi dimostrassi
esser nume celeste,
che men mi graverebbe
un sì grato disprezzo.
E pur al mio dispetto
la maestade lesa
la mia grandezza offesa
è sforzata patir l’ingiurie, e l’onte.
Orme d’un piè rubello
pur v’inchino, e vi seguo,
e per forza d’amor pongo in oblio
la vostra colpa, ed il ludibrio mio.

Scena sesta
Cefalo, Aurora.

CEFALO
Dunque tu vuoi partire?
Saran dunque, ben mio,
le nostre giocondissime dolcezze
infrequenti spezzate,
e da rapidi istanti misurate?
A pena il cor risorge
dagli andati sospiri,
ch’a sospiri mestissimo ritorna.
Ohimè restano oppressi inabissati
i brevissimi nostri godimenti
da una serie infinita de’ tormenti.

AURORA
Soffre, e taci mio caro,
che mentre da te parto,
tutto ch’io sia immortal, sento la morte.
E ‘l viaggio, ch’io tento verso il cielo
mi par una discesa al cupo inferno.

CEFALO
Io resterò tra queste oscure chiostre
destituto piangente,
peregrin sospiroso,
e tu godrai del tuo diletto sposo.

AURORA
No no, Cefalo, no
te sempre bramerò d’aver in seno,
la memoria di te
sarà perpetua in me,
non dubitar ohimè,
nel pensar di lasciarti io vengo meno.
Più spesso, che potrò
a te discenderò mia sola spene,
nessun oggetto in ciel
(sia pur quanto vuol bel)
dal mio core fedel
torrà l’immagin tua mio dolce bene.
Vanne mio solo amor,
vanne mio vero cor, Cefalo mio.
Qui mi nasconderò,
e Apollo aspetterò,
la lingua, e non il cor ti dice, addio.
Addio, Cefalo, va’,
ahi che partir non sa, da te il mio piede.
Penoso palpitar
questo cor vuol spezzar,
ma alfin conviene andar,
teco resta il mio pianto, e la mia fede.

CEFALO
Non t’asconder diletta,
che ‘l tuo lume ti accusa, e ti palesa,
tua bellezza immortale
illumina le tenebre, e non puoi
nasconder il tuo nume,
se de begl’occhi tuoi non spegni il lume.
Ecco rimango solo, ecco finito
su ‘l meriggio il mio dì, chi mi consola?
Pensiero innamorato or corri, or vola
al tuo bene ineffabile infinito.
Mentre me n’ vo per solitarie vie
ramingo, gemebondo, e senza vita,
mendico d’ogni ben chiedendo aita
a’ miei cordogli, e alle angosce mie.
Per una dea patisco: adunque viene
dal mio dolor la gloria, ed il decoro:
se per cosa immortal languisco, e moro,
martirio illustre, e glorïose pene.
Chi per bellezza nobile, e sublime
diffonde pianti, e pubblica lamenti,
veste di maestade i suoi tormenti,
e in marmo eterno il proprio nome imprime.

Scena settima
Procri, Cefalo.

PROCRI
Ove, Cefalo, ascondi
il rossor, che t’accusa,
quel sangue che le guance ti colora
scampa dal tuo cor empio
e corre nel tuo volto
a scriver le querele
contro l’anima tua più che infedele.
O de’ miei fidi amori
de’ miei costanti affetti
ingrato, iniquo, e perfido compagno,
delle lagrime mie questo è ‘l guadagno?
Se ‘l mio nome disturba
il seren di tua pace,
consegnalo all’oblio,
e tua memoria intanto
si degni di lavarsi entro al mio pianto.

CEFALO
Violenza di cielo
ha provvisti di scuse i falli miei.
Ove una dea m’alletta,
non s’adiri una ninfa,
e ceda pur con retto e giusto esempio
la piaggia al cielo, e la capanna al tempio.

PROCRI
Quell’amor che ti scalda per l’Aurora,
è quel medemo nume
che per me ti scaldò;
se lo stral, ch’or ti punge, è stral d’un dio,
anco quella saetta
che per me ti piagò,
fu saetta divina.
Amore è nume uguale a tutti i cori:
or tu dal ciel non mendicar ragioni
sono odiosi tutti i paragoni.

CEFALO
Se Amor per te piagommi,
ora m’ha risanato,
la seconda ferita
ha saldata la prima,
ma non s’incolpi d’incostanza un core,
non sempre adopra un solo dardo Amore.

PROCRI
Vesti, o Cefalo, vesti
di studiati arnesi il tuo misfatto,
che quanto più l’adorni
deformità gli accresci.

CEFALO
Ti torno a dir, che il ciel ‘ha fatto forza.

PROCRI
Ogni reo per salvarsi incolpa il cielo.

CEFALO
Dunque amar una dea stimi peccato?

PROCRI
Dunque non è peccato il tradimento?

CEFALO
Traditore son io, perché non t’amo?

PROCRI
Chi promette, e poi manca, è un assassino.

CEFALO
Se promisi d’amarti, io già t’amai.

PROCRI
Non è perfetto amor, se non eterno.

CEFALO
Ma come dessi eternitade in terra.

PROCRI
Con l’anime s’eterna un vero amore.
Ma teco io non contrasto,
e parto accompagnata
da disperate angosce.
Tu con l’Aurora intanto ti consola,
ch’io vado afflitta, desolata, e sola.

Scena ottava
Cefalo solo.
Quanto a ragion costei
si lamenta di me; ma che poss’io?
Pietade mi commove a segno tale,
che sopra ai suoi lamenti io piangerei,
ma l’affetto che m’arde per l’Aurora
ad ogni altro rispetto in me sovrasta,
così l’amor con la pietà contrasta,
e mentre fra di lor vibrano i colpi,
l’anima mia, che si vuol porre in mezzo,
per sedar la lor lite
in sé stessa rileva le ferite.
Miserabile Procri,
t’ho abbandonato, è vero,
e de’ miei dolci pianti per te sparsi
l’oblivïone disseccò le vene.
Merita compassion la tua fortuna,
ma non merta castighi il fallo mio;
fallo però non può chiamarsi, quando
l’umano sentimento
lascia un oggetto, che finisce in polve,
e alla divinità s’innalza, e volve,
ohimè qual grave errore
ho commesso impegnando
il mio pensiero in compatir la ninfa,
e distornando il core
dall’adorar la dèa.
Procri il cor mio più non ti compatisce,
Aurora, a te l’anima mia s’unisce.
E voi lagrime mie
per la pietà di Procri già venute
a scrivermi sul viso
caratteri dolenti, e lamentosi,
perdon chiedete or ora
alla mia bella Aurora.
Non ha per sostentar più d’un Amore
sostanze equivalenti un solo core.

Atto terzo

Scena prima
Filena, Dafne.

FILENA
E sarai così stolta,
che gl’amplessi d’un dio rifiuterai?
Dunque dunque te stessa
deificar tu puoi,
pazzarella, e non vuoi,
e la tua voluntà s’indura, e nega
mentre sì caldamente un dio ti prega?

DAFNE
E non posso, e non voglio
metter gli orecchi miei
in sicuro da’ tuoi
fastidiosi accenti,
e m’istighi, e mi provochi, e mi tenti?
Non intendo d’amor principio alcuno,
affetto forastiero alla mia pace
non voglio in questo petto;
non voglio, che si muti
di mia vita il tenore,
scherzi, con altri pur, non meco Amore.

FILENA
Quel bel viso ridente,
che risplende, e diletta
nell’amoroso Apollo,
quella soave bocca
che sì dolce ragiona
l’alma non t’imprigiona?
O dio del caro nume
quel bellissimo aspetto
non ti muove nel petto
il sentimento dolce, e non ti chiama
a riamar chi t’ama?
S’egli pregasse me,
Dafne ti giuro affé,
tutta tutta ei m’avrebbe,
e sempre troverebbe
dalla mia volontà bandito il no;
ma io, che son sì sconcia
e di viso, e di seno,
se con lui mi stringessi in dolce laccio
sembrerei proprio un’ombra al sole in braccio.
Ama, Dafne, e sia gloria
delle tue guance belle
l’esser tanto piaciuta
al principe del lume, e delle stelle.
Se l’occhio non fallì
sì ch’egli è desso,sì:
vedilo di lontano
venir a noi pian piano.
Ei torna a cimentare i preghi suoi
con la cote agghiacciata
dell’alma sua spietata.
Lascia le ritrosie
guarisci le pazzie,
e se terreni amanti aver non vuoi
volgi al ciel, drizza al sol gli amori tuoi.

DAFNE
Fuggirò, ma che bado,
che non ricorro al mio diletto padre,
perch’ei mi guardi da nemici oltraggi.
Padre, padre Penèo,
sorgi dal cupo fondo
delle tue limpid’acque,
salva, deh salva omai
dalle mani impudiche
del dissoluto Apollo
la tua piangente figlia,
che per sottrar se stessa
da temerari insulti,
non può vibrar altr’armi, che singulti.

Scena seconda
Penèo, Dafne.

PENÈO
Figlia indarno da me soccorso attendi,
che contro il biondo dio
resister non poss’io,
però che il sol può disseccar quest’acque,
ma quest’acque non ponno
spegner la luce, ed ammorzare il sole.
Dispari forza inferior talento
riconosca se stesso,
ed a’ maggiori suoi non vada appresso.

DAFNE
Dunque sugl’occhi tuoi,
o indebolito nume,
o vilipeso fiume
cadrò preda infelice?
Così a chi il tutto puote, il tutto lice?

PENÈO
Trovo un rimedio solo,
per far riparo agl’imminenti mali,
trasformar ti poss’io
in pianta, che di frondi
abbia perpetue chiome,
e non più Dafne no, Lauro avrai nome.

DAFNE
Vada la vita mia, com’a te piace,
per salvar l’onestate,
se non basta in un arbore, in un sasso,
trasformami a tuo senno.
Vada peregrinando
per mille forme varie l’esser mio,
pria, che cader dal virginal decoro
delle grand’alme singolar tesoro.

Scena terza
Apollo, Amore.

APOLLO
Ohimè, che miro? Ohimè dunque, in alloro
ti cangi, o Dafne, e mentre in rami, e in frondi,
le belle membra oltredivine ascondi,
povero tronco chiude il mio tesoro.
Qual sento umano, o qual celeste ingegno
a sì profondo arcano arrivò mai?
Veggo d’un viso arboreggiare i rai,
trovo il mio foco trasformato in legno.
Misero Apollo i tuoi trionfi or vanta
di crear giorno, ove le luci giri,
puoi sol cangiato in vento de’ sospiri
baciar le foglie all’adorata pianta.
Sgorghino omai con dolorosi uffici
dai languid’occhi miei lagrime amare,
vadino in doppio fonte ad irrigare
d’un lauro le dolcissime radici.
Era meglio per me, che fuggitiva,
ma bella oltre le belle io ti vedessi,
che con sciapiti, e non giocondi amplessi
un arbore abbracciar su questa riva.
Giove, crea novo lume, io più non voglio
esser chiamato il sole, e dentro all’onde
delle lagrime mie calde, e profonde
immergo il caro, e de’ miei rai mi spoglio.
Spezza tu la mia sfera, o tu l’aggira,
al zodiaco per me puoi dir addio;
de’pianti in mar novo Nettun son’ io,
suona agonie la mia lugubre lira.
A te ricorro onnipotente Amore,
al mio gran mal le medicine appresta;
di questo alloro un ramoscello innesta
con incalmo divin sopra il mio core.
Così, lauro mio bello, e peregrino,
orto sarà il mio petto ai rami tuoi,
sarà con union dolce tra noi,
la mia divinitade il tuo giardino.

AMORE
Dimmi, Apollo dolente,
del bambin, del pigmeo pungono l’armi?
Sei tu quell’insolente,
che vaneggiò così nel dipsrezzarmi?
Or trionfa di te la mia saetta,
nuota ne’ pianti tuoi la mia vendetta.
Tu con Amor puntigli,
e gonfio d’ambizion sprezzi i maggiori,
e con ciechi consigli
trescan con il mio dardo i tuoi splendori;
col sangue di tua piaga or scritto sia,
l’irritar i più forti è una follia.
Asciuga gl’occhi, Apollo,
ch’l vano lagrimar non sana i mali;
piega al mio giogo il collo,
giura servaggio agl’amorosi strali:
il cederni non è tuo disonore,
perché se tu sei il solo, io son Amore.
Che su tu apporti il die,
io scopro il paradiso a’ miei devoti,
e all’immagini mie
assai più, ch’alle tue s’appendon voti.
Anzi, che i miei vassalli han per costume
d’andar notturni, e rinnegar tuo lume.
Di tue lacrime omai
ho fatto perle, e me n’ingemmo l’arco;
tu da qui innanzi andrai
nel dirmi oltraggi più modesto, e parco.
Mortali or chi da me salvar si vuole,
se ‘l mio dardo ha trafitto il core al sole.

Scena quarta
Pan, Apollo, Dafne trasformata.

PAN
Che lagrime son queste,
o luminoso dio?
Invece di apportare al basso mondo
allegrezza col raggio,
il sereno del ciel turbi col pianto?
Che stilleran le nubi,
se in nova pioggia si distilla il sole?
Se curioso affetto
non accresce i tuoi mali
dimmi, cortese Apollo, i tuoi cordogli.
Servirà di singulti questo petto,
abbonderà di lagrime pietose
il mio core a’ tuoi casi.
Non toglier a te stesso
i benefici dell’affetto mio,
ben è infelice il tuo presente stato,
se aborre i modi d’esser consolato.

APOLLO
Pietosissimo Pane,
non sanno le parole,
come venir dal core alla mia bocca,
perché a mezzo viaggio
il duol le prende, e le dissolve in pianto;
e ‘l concetto, che parte
dall’anima dolente
crede esser favellato
ma resta lagrimato.

PAN
E quale è la cagione
di tanto tuo dolore.

APOLLO
È la cagione Amore.

PAN
O disturbo del mondo,
o scompiglio del cielo,
o furia dell’Olimpo, o cieco nume.
La madre tua si generò nell’acque
ed il zoppo tuo padre è dio del foco,
e tu fai scaturire a mille a mille
da cori amanti e lagrime, e faville.
Ma come è quale amore
t’ha sì mal concio, o sconsolato Apollo?

APOLLO
Vedi tu là quell’arbore gentile,
che smeraldeggia nelle belle frondi?
Quella è Dafne, il cui viso
con armi di beltà piagommi il seno.
Io volea darle a bere
nella coppa d’un bacio i pianti miei;
ella sdegnosa mi fuggì repente,
io la seguia pregando,
ed ella per schernirmi,
e toglier a’ miei baci
di sua bocca il dolcissimo tesoro
s’è cangiata di ninfa in un alloro;
d’ogni tuo bene o derelitto Apollo.
Son geloso del bosco,
che con le sue radici
unir si può per sotterranea via
con le radici della vita mia.
Son geloso dell’aure,
che baciano sovente
la sempreverde ed onorata fronde,
e quando sarò in cielo
i raggi manderò sovra di lei,
sarò geloso ancor de’ raggi miei.
Pan, tu non piangi? E dove
serrasti la pietade,
se dagl’occhi non t’esce in torbid’onde.
Piangete erbe, ombre, antri, aure, augelli, e fronde.

PAN
Vedi tu queste canne,
son della mia Siringa
armoniche memorie aspre membranze.
Or non sai tu, ch’amai
la mia bella Siringa,
e ch’ella ricusando
riamar chi l’amava
trasformossi in istante in canna lieve?
Lo san le selve, e i sassi,
e ne piansero i rivi.
Io come Amor dettommi
della canna adorata
quest’organo silvestre
di calami sonori
ho poi formato,
e se abbracciar non puoti
la bella ninfa in sua sembianza vera
me l’ho legata trasformata al collo,
e feci sospirando
della necessità virtute, o Apollo.
Così lo spirto mio
si racconsola,e in questi
calami sospirati
musico innamorato impiego i fiati.
Prendi tu di quei rami,
e te ne fa’ corona al biondo crine;
coronane la cetra, e ti consola,
che ne’ fronzuti, ed immortali allori
la memoria vivrà d’eterni amori.

DAFNE
Ohimè dunque sì crudo
contro ninfa innocente
stendi la man feroce?
Questi sono gli amori,
o insidioso Apollo,
nemico del mio onor, mentre fui donna;
frattor de’ rami miei, mentre son pianta.
Perdona almen perdona
alla vivente umanità sepolta,
abbian pace una volta
da ingiurïoso amante
se non le ninfe imbelli, almen le piante.

APOLLO
E che fieri consigli
mi desti, o Pane? Ahi come ho lacerato
il prezïoso tronco.
Senti le voci, senti
della mia cara vita
dalle mie proprie mani, ohimè ferita.

DAFNE
Questo povero tronco,
se non merta pietà, svellasi omai.
Sia però noto al mondo, Apollo ingrato,
ch’io non t’offesi mai.
Miserabile Dafne
che trovar puossi paragone in terra
alle tue disventure.
Perché il destin le tue sventure vuole,
fatt’è un sicario, un omicida il sole.

APOLLO
Perdona, o ninfa cara,
sotto cortecce ruvide, e silvestri
singolar mio conforto, anima mia.
Perdona a questa mano,
e se ‘l castigo mio brami vedere,
sappi, ch’a questo mio misero core
patiboli, e torture appresta amore.

DAFNE
Assai son soddisfatta, anzi mi pento
di esserti stata cruda, o biondo dio
rasciuga i pianti, ch’io
con le frondi, e coi rami
con le radici a te mi prostro, e dico
in idïoma umano,
e in linguaggio d’alloro
te come amante, e come sole adoro.

PAN
O parole ben degne
d’esser scritte in caratteri di stelle.

DAFNE
Amico Apollo, addio;
quest’arbore non può più lungamente
organizzar parole;
della sua Dafne non si scordi il sole.

APOLLO
Se sopra l’esser dio
si ritrovasse altezza,
colà su porterei la tua bellezza.
Eterna avrò memoria
di te, mia cara Dafne,
e staranno in perpetuo uniti insieme
nel verace amor mio
l’esser di Dafne amante, e l’esser dio.
Or consolato vivo,
Pane, e m’accordo teco,
or a vicenda sia
di tua zampogna, e di mia cetra il suono;
cantiam di Dafne, e di Siringa insieme
con sinfonie gioconde
le belle metamorfosi gradite.

APOLLO
Dafne mia, Dafne bella
delle tue frondi omai mi cingo il crine;
ceda pure ogni stella
a corone sì altere, e peregrine.
Più della luce mia de’ miei splendori
stimo il caro diadema aver allori.

PAN
Siringa, a te s’inchina
ogni forma terrena, ogni celeste,
tua bellezza divina
sempre si canterà nelle foreste.
Né sarà mai ch’in terra, o in ciel dipinga
più bel sembiante mai, che di Siringa.

APOLLO
Questa bella, alma fronde
verdeggierammi eternamente in fronte,
né sie mai, che si sfronde
suo ramo fulminato in valle, o in monte.
Se al zodiaco mancar potesse un segno,
l’alloro andar làssù saria ben degno.

PAN
Canne mie preziose,
memoria del mio foco, e del mio pianto;
l’angosce mie penose,
sì come vuole Amor, rivolgo in canto.
Le nostre ninfe trasformate in piante
canti ognuno di noi giocondo amante.

APOLLO E PAN
Sì sì vivano eterne
di nostre fiamme l’amorose luci.
Sia perpetuo il decoro
a chi ci nutre in sì beato ardore.
Nè rimbombare il ciel sia mai satollo
sempre Siringa, e Pan, Dafne, ed Apollo.
Qui macchina s’abbassa per ricever Apollo, e condurlo in cielo.

Scena quinta
Aurora, Apollo, Pan da una parte.

AURORA
Mentre ritorni in cielo,
o luce, ed allegria dell’universo,
non isdegnar, che teco
venga la tua foriera.

APOLLO
E quando, e come
in queste valli apriche
discendesti, o lucente
pittitrice mattutina?

AURORA
Di mia venuta in terra
l’amorosa cagion ti dirò poi.

APOLLO
Vientene meco pur; vagheggi intanto
l’occhio mortale, e additi
l’Aurora, e ‘l sol in bella nube uniti.

AURORA
Se Titon ti dimanda
s’oggi ho retto il tuo carro,
rispondi un sì mendace;
bella maschera sia
di stratagemmi miei la tua bugia.

APOLLO
Come vuoi, che la luce
gl’uffici delle tenebre esseguisca?
Nacqui a svelar, non a coprir i falli.
Del temerario mondo
purtroppo sentirei
incolpar di bugiardi i raggi miei.

AURORA
Orsù, quando bisogna, e altrui non nuoce,
è gentilezza il falseggiar bugie,
e tra due contendenti
sempre è sicuro direttor di pace
prudente mentitor, scaltro mendace.

APOLLO
Così parlan le donne, e non le dèe,
così s’usa nel mondo, e non nel cielo.
L’uom scellerato, ch’ha smarrite omai
della sincerità tutte le vie
chiama prudenza il rimbellir bugie.
Ma non dimen per compiacerti, o bella,
ti prometto mentir, quanto vorrai,
e al tuo vecchio Titone
creder farò, che tu sii stata in cielo,
e ch’all’uscir del luminose die
hai sostenute in ciel le veci mie.
Qui Apollo e l’Aurora ascendono in cielo.

PAN
L’Aurora afferma al sole,
ch’amorosa cagione
l’abbia condotta in terra,
e vuol ch’al suo Titone
bugie sian dette, e stratagemmi orditi?
O folli amanti, o poveri mariti,
o donne, o belle donne,
mora pur mora
chi non v’adora,
ma chi è possente
d’andar esente
dalle scaltre bugie del vostro sesso,
se guardar non sen n’ puote il cielo stesso?
O bellezze, o bellezze
non merta fama
chi non vi brama,
ma se il pensiero
penetra il vero,
dappertutto abbondar beltà si vede,
e sol si prova carestia di fede.
Quel è saggio e prudente
che solo crede
a ciò, che vede.
Negozia sano
col pegno in mano,
ma con voi donne belle, a quant’io vedo,
non presto fede, e al pegno ancor non credo.
Segue il ballo de’ Fiori.

CORO
Novo alle selve
nume s’aggiunge
novo decoro
e maraviglia
riceve la frondosa ampia famiglia
celebriamo così
sì lieto dì.
Virtù celeste,
voler divino
cangia, e trasforma
in verde alloro
della Tessaglia il singolar decoro;
così lodata va
tanta beltà.
Balliam Giacinto,
danziam Narciso,
alzati Adone
né star afflitto
a tue radici, o vago ciparisso;
ora con lieve piè
formisi un «D».
Trecce, e catene
groppi, e viluppi
e labirinti
in vari giri
a ritrar, a formar ognuno aspiri,
e in bella novità
stampisi una «A».
La leggiadria
impenni l’ali
al nostro piè,
men presti, e snelli
sian del nostro danzar gl’istessi augelli;
faccia un, «F», gentil
musico stil.
Pure venite
al paragon,
venti non sete
sì presti al volo
com’è di nostra danza un salto solo.
Or l’«N», in un balen
formato vien.
Formiamo al metro
d’alta armonia
sanze volanti,
e a dolci corde
moviamo il passo, e ‘l piè sempre concorde.
E ‘l passo istesso , e ‘l piè
riposi in «E»?
Comincia in, «D»,
poi segue in, «A»,
indi, «F», vien,
continua in, «N»,
e a terminare in «E», suo nome viene.
Sempre onorar si vuol
Dafne, ed il sol.
Dafne si canti
ninfa del sole
amor d’Apollo
baciate, o fiori
il piede alla regina degli allori.
Finché il ciel durerà
Dafne vivrà.

Scena sesta ed ultima
Filena, Cirilla.

FILENA
Or hai finite, o Dafne,
l’indomite pazzie.
Non era meglio, o stolta,
compiacere ad Apollo,
che diventare un tronco?
Or delle colpe tue soffri la pena
sì pazza già non sarà mai Filena.
Ricusar dolci baci
rifiutar godimenti,
per crescer alle selve arbori novi,
ben il volgo ha ragione
nel dir, che ‘l mondo tutto è opinione.
Un incalmo de’ fiori
si paga a prezzo d’oro,
ed è pompa, e tesoro de’ giardini,
un incalmo de’ frutti
si guarda, e custodisce,
e gli si dà a misura e pioggia, e sole,
e negl’orti de’ sensi innamorati
e nei giardini amabili dell’alme
opinion non vuol, ch’amor s’incalme,
quel che lice, e conviene
alle colombe stesse,
che della purità sono l’idee;
quel che lice agl’agnelli
esempi d’innocenza, e d’umiltade.
Tra le ninfe, e i pastori
è nota di vergogna, e disonori.
O Filena infelice
non serenar più mai la faccia mesta;
tempi, e costumi rei, che legge è questa?

CIRILLA
Alfesibeo m’ha detto
il mistero del sogno,
ed è toccato a Dafne il trasformarsi.

FILENA
Guarda, Cirilla, guarda,
ecco l’arbore novo,
in cui cangiossi l’ostinata Dafne.

CIRILLA
Metamorfosi bella, ed onorata,
ninfa degna d’eterne ricordanze.
E tu circondi di mordace biasimo
un’azione sì nobile, ed illustre?
Trangugia quelle voci
scostumata Filena,
che il fiore virginale conservato
divide per metà con Giove stesso
il titolo d’eterno, e di beato.
E donzella ben nata
più stimar dée la gioia dell’onore,
che le proprie pupille, e ‘l proprio core.
Sebbene (o nostri dì caliginosi)
or sono le citelle
purtroppo baldanzose,
né tali io le vorrei
così già non s’usava a’ tempi miei.
Ora la giovinetta
dal guscio appena uscita
alla finestra aspetta,
se al vezzo alcun la invita,
mentre di latte ancor sua bocca sente
studia co’ sguardi avvelenar la gente.
Morde il labbro lascivo
poi con la lingua il molce
fa l’occhio semivivo
in un deliquio dolce,
mentre l’incauta madre è intenta all’ago
getta la sfacciatella i baci al vago.
Nel fior dell’età verde
coglie d’infamia il frutto.
Ma sull’onor, che perde,
apre un fondaco brutto,
perché subordinando inganni rei
si vende per donzella a cinque, e a sei.
Se fosse in mia balia
citella senza ingegno,
le trarrei la pazzia
a fè con questo legno,
che può solo un baston co’ suoi rigori
mortificar pruriti, e pizzicori.

FILENA
Ma se tu non fossi vecchia
avresti altri pensieri,
ma insomma così va
fredda decrepità,
che rincresce a se stessa, e gli altri annoia,
mentre di dolce brillo i spirti ha privi,
fa la satrapa addosso ai sensi vivi.
Queste vecchie befane
insensate, ed insane
mordon sempre co’ detti lor pungenti,
mentre per morder pan non hanno denti.
Sempre fanno bisbigli
con sciapiti consigli,
e stanche omai di godimenti mille,
or che non posson più, fan le sibille.

Fine del libretto.