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Libretto “La Dafne” di Marco da Gagliano

La Dafne

Favola in musica

Musica di Marco da Gagliano
Libretto di Ottavio Rinuccini

Prima rappresentazione: gennaio 1608, Palazzo Ducale, Mantova.

Personaggi

Libretto – La Dafne

PROLOGO

OVIDIO
Da’ fortunati campi, ove immortali
godonsi a l’ombra de’ frondosi mirti
i graditi dal ciel felici spirti,
mostromi in questa notte a voi, mortali.

Quel mi son io, che su la dotta lira
cantai le fiamme de’ celesti amanti,
e i trasformati lor vari sembianti
soave sì, ch’il mondo ancor m’ammira.

Indi l’arte insegnai come si deste
in un gelato sen fiamma d’amore,
e come in libertà ritorni un core
cui son d’amor le fiamme aspre e moleste.

Coppia Real, ch’alto destino scelse
per serenar, per far beato il mondo,
al cui senno e valor d’Atlante il pondo
fòra soma non grave, anime eccelse.

Seguendo di giovar l’antico stile,
con chiaro esempio a dimostrarvi piglio,
quanto sia, Donne e Cavalier, periglio
la potenza d’Amor recarsi a vile.

Vedete lagrimar quel Dio, ch’in cielo
reca in bel carro d’òr la luce e ‘I giorno,
e de l’amata Ninfa il lume adorno
adorar dentro al trasformato stelo.

 

SCENA I

PASTORE DEL CORO (I)
Tra queste ombre segrete
s’inselva e si nasconde
l’orrida belva: cauti il pié muovete,
Ninfe e Pastori; ah, non scotete fronda.

ALTRO PASTORE DEL CORO (II)
Dunque senza timor, senza spavento,
pe’ nostri dolci campi
non guiderem mai più gregge od armento?

NINFA DEL CORO (I)
E quando mai per queste piagge e quelle
fronda corremo o fiore,
misere verginelle;
che di terror non ci si agghiacci ‘l core?

TIRSI
Giove immortai, che tra baleni e lampi
scoti la terra e ‘I cielo,
mandane o fiamma o telo
che da mostro sì rio n’affidi e scampi.

PASTORE DEL CORO (III)
Mira dal Ciel, deh mira:
nudi di fronde omai questi arboscelli,
pallide l’erbe e torridi i ruscelli;
mira dal Ciel, deh mira:
tra lagrime e lamenti
tender le palme al cielo
sconsolati pastor, ninfe innocenti.

PASTORE DEL CORO (I) E CORO
Se lassù tra gli aurei chiostri
puote un cor trovar mercè,
odi il pianto e i preghi nostri,
o del Ciel monarca e re.

CORO
Se a ferir la turba altera
che sovr’Ossa Olimpo alzò,
d’atro foco ira severa
tra le nubi il Cielo armò.
Si replica «Odi il pianto»

De la destra onnipotente
non vil pregio ancor sarà
sterminar crudo serpente
che struggendo il mondo va.
Si replica «Odi il pianto»

PASTORE DEL CORO (III) E CORO
Pera, pera il rio veleno,
non attoschi il mondo più;
verde il prato e ‘I ciel sereno
torni omai, torni qual fu.
Si replica «Odi il pianto» «S’inginocchino»

ALTRO PASTORE (II)
Ma dove oggi trarrem tranquilla un’ora
senza temer l’abominevol tosco?

PASTORE DEL CORO (I)
Ebra di sangue in questo oscuro bosco
giacea pur dinanzi la terribil fera.
Eco: Era.

ALTRO PASTORE (II)
Dunque più non attosca
nostre belle campagne? altrove è gita?
Eco: Ita.

PASTORE DEL CORO (I)
Farà ritorno più per questi poggi?
Eco: Oggi.

ALTRO PASTORE (II)
Oimè! che n’assecura
s’oggi tornar pur deve il mostro rio?
Eco: Io.

TIRSI
Chi sei tu, che n’affidi e ne console?
Eco: Sole.

PASTORE DEL CORO (I)
Il Sol tu sei? tu sei di Delo il Dio?
Eco: Dio.

TIRSI
Hai l’arco teco ferirlo, Apollo?
Eco: Hollo.

TIRSI E CORO
S’hai l’arco tuo, saetta infin che mora
questo mostro crudel che ne divora.
Eco: Ora.
(Qui Apollo mette mano a l’arco e saetta il Fitone).

CORO
Oimè che veggio! o Divo, o Nume eterno,
ecco l’orribile angue:
spenga forza del Ciel mostro d’inferno.
O benedetto stral! mirate il sangue!
O glorioso arciero!
Ah, mostro fero, ancor non cadi esangue?
Arma di nuovo stral l’arco possente.
Vola, vola pungente;
(qui il Fitone si parte e Apollo lo seguita verso la strada)
spezza l’orrido tergo,
giungilo al cor dove ha la vita albergo.
(seguitano Apollo)

APOLLO
Poi giacque estinto al fine
in su ‘l terren sanguigno
da l’invitt’arco mio l’angue maligno.
Securi itene al bosco,
Ninfe e Pastori, ite securi al prato:
non più fiamma e tosco
infetta ‘l puro ciel l’orribil fiato.
Tornin le belle rose
ne le guancie amorose;
torni tranquillo il cor; sereno ‘l volto:
io l’alma e ‘l fiato al crudo serpe ho tolto.

CORO
Almo Dio, che ‘l carro ardente
per lo ciel volgendo intorno
vesti ‘l dì d’un aureo manto,
se tra l’ombra orrida algente
splende il ciel di lume adorno,
pur tua la gloria e ‘l vanto.

Se germoglian frondi e fiori,
selve e prati, e rinnovella
l’ampia terra il suo bel manto,
se de’ suoi dolci tesori
ogni pianta si fa bella,
pur tua la gloria e ‘I vanto.

Per te vive e per te gode
quanto scerne occhio mortale
o Rettor del carro eterno:
ma si taccia ogn’altra lode;
sol de l’arco e de lo strale
voli il grido al del superno.

Nobil vanto! il fier dragone
di velen, di fiamme armato
su ‘I terren versat’ha l’alma:
per trecciar fregi e corone
al bel crin di raggi ornato
qual fia degno edera o palma?

 

SCENA II

AMORE
Che tu vadia cercando o giglio o rosa
per infiorarti i crini,
non ti vo’ creder, no, madre vezzosa.

VENERE
Che cerco dunque, o figlio?

AMORE
Rosa non già, né giglio:
cerchi d’Adone, o d’altro vie più bello
leggiadro pastorello.

VENERE
Ah tristo, tristo! Ecco ‘I signor di Delo:
pe’ boschi oggi se ‘n van gli dèi del cielo.

APOLLO
Dimmi, possente arciere,
qual fera attendi o qual serpente al varco
c’hai la faretra e l’arco?

AMORE
Se da quest’arco mio
non fu Pitone ucciso,
arcier non son però degno di riso,
e son del cielo, Apollo, un nume anch’io.

APOLLO
Sollo; ma quando scocchi
l’arco, sbendi tu gli occhi
o ferisci a l’oscuro, arciero esperto?

AMORE
S’hai di saper desìo
d’un cieco arcier le prove,
chiedilo al Re de l’onde,
chiedilo in cielo a Giove.
E tra l’ombre profonde
del Regno orrido oscuro
chiedi, chiedi a Pluton, s’ei fu sicuro!

APOLLO
Se in cielo, in mare, in terra
amor trionfi in guerra
dove dove m’ascondo?
Chi novo ciel m’insegna, o novo mondo?

AMORE
So ben, che non paventi
la forza d’un fanciullo,
saettator di mostri e di serpenti:
ma, prendi pur di me giuoco e trastullo!

APOLLO
Ah, tu t’adiri a torto:
o mi perdona, Amore,
o, se mi vuoi ferir, risparmia ‘I core.

VENERE
Vedrai, che grave risco è scherzar seco,
bench’ei sia pargoletto, ignudo e cieco.

AMORE
Se in quel superbo core
non fo piaga mortale,
più tuo figlio non son, non sono Amore.

VENERE
Amato pargoletto,
come giust’ira e sdegno
oggi t’infiamma il petto,
sì spero al nostro regno
veder l’altero Dio servo e suggetto.

AMORE
Non avrò posa mai, non avrò pace
fin ch’io no’l vegga lagrimar ferito
da quest’arco schernito.
Madre, ben mi dispiace
di lasciarti soletta,
ma toglie assai d’onor tarda vendetta.

VENERE
Vanne pur lieto, o figlio;
lieta rimango anch’io,
che troppo è gran periglio
averti irato a canto:
per queste selve intanto
farò dolce soggiorno;
poscia faremo insieme al ciel ritorno.

Chi da’ lacci d’amor vive disciolto
de la sua libertà goda pur lieto,
superbo no: d’oscura nube involto
stassi per noi del ciel l’alto decreto;
s’or non senti d’amor poco né molto,
avrai dimani il cor turbato e ‘nqueto,
e signor proverai crudo e severo Amor,
che dianzi disprezzasti altero.

CORO
Nudo Arcier, che l’arco tendi
che, velat’ambe le ciglia,
ammirabil meraviglia!
Mortalmente i cori offendi,
se così t’infiammi e ‘ncendi
verso un Dio, quai saran poi
sovra noi gli sdegni tuoi?

D’un leggiadro giovinetto
già de’ boschi onore e gloria
suona ancor fresca memoria
che m’agghiaccia ‘I cor nel petto,
qual per entro un ruscelletto
sé mirando, arse d’amore,
e tornò piangendo in fiore.

 

SCENA III

DAFNE
Per queste piante ombrose
scorgimi, Cintia, tu selvaggio Nume,
dove fuggì la fera, ove s’ascose.

PASTORE DEL CORO (III)
Ecco il pregio, ecco il sol di queste selve,
ecco la bella Dafne
che al suon de l’arco fa tremar le belve.

ALTRO PASTORE (II)
Cacciatrice gentil, che col bel ciglio
splendor raddoppi a questo di sereno,
spento è il crudo Fiton: mira il terreno
de l’empio sangue ancor caldo e vermiglio.

DAFNE
Dolcissima novella! E qual si forte
avventurosa mano
lasciato ha il mostro rio preda di morte?

PASTORE DEL CORO (I)
Febo, che su ne l’alto
rota la face onde s’aggiorna il mondo,
spènselo alfin dopo un mortale assalto.
Deh, come fu giocondo
mirar quel Divo, in un feroce e vago,
moversi incontro al formidabil drago!
Or minaccioso a fronte
stàvagli ardito, or sovra il piè leggiero
de l’immenso animai scherma la rabbia
che da l’accese labbia
fremendo invan spargea fiamma e veleno.
Sovra la belva atroce
fermo tenea talor lo sguardo intento,
hor movea tardo e lento,
or rapido, or veloce
pur come avesse ne le piante il vento.
Né mai felice arciera
spinse da l’arco strale.

Che di piaga mortale
non lasciasse trafitto il mostro fero,
tal che a fuggir si diè tutto tremante:
ma da l’alate piante
del gran saettator fuggissi invano,
ch’ei pur lo giunse; o memorabil palma!
E privo d’alma lo lasciò su ‘I piano.

DAFNE
O di celeste eroe ben degni vanti!
Felicissimo giorno! Al suono, a’ balli
tornate omai, pastor,
tornate a’ canti.
Vie più sicura anch’io per monti e valli
saettando n’andrò le fere erranti.

CORO
Ogni ninfa in doglie e ‘n pianti
posto avea per sua bellezza,
ma del cor l’aspra durezza
non piegar l’afflitte amanti:
quelle voci e quei sembianti
ch’avrian mosso un cor di fera,
schernia pur quell’alma altera.

APOLLO
(Dalla via)
Deh come lieto in queste piagge io torno,
piagge dilette e care
ove colsi d’amor palme si chiare!
Ma, deh, che miro! e qual d’un ciglio adorno
spira lume gentil che al cor mi giunge!

DAFNE
Certo non molto lunge,
se non m’ingannan l’orme, è damma o cervo.
Or vedrò se ‘I mio strai va dritto e punge.

APOLLO
Ah, ben sent’io se son pungenti i dardi
de’ tuoi soavi sguardi!

PASTORE DEL CORO (III)
Ben a ragion s’apprezza,
se ne sospira un Dio, l’alta bellezza.

APOLLO
Dimmi, qual tu ti sei,
o ninfa o dèa, che tale
rassembri a gli occhi miei,
che cerchi armata di faretra e strale?

DAFNE
Seguendo io me ne giva,
sì come è l’uso mio, fugace fera;
e son donna mortai, non del ciel diva.

APOLLO
Se cotal luce splende In bellezza mortale,
del ciel più non mi cale.

DAFNE
Dove mi volgo? Dove
moverò ‘I passo che la fera trove?

APOLLO
Senza che dardo avventi o l’arco scocchi
valli cercando o monti,
far nobil preda puoi co’ tuoi begli occhi.

DAFNE
Altra preda non bramo, altro diletto
che fere e selve; e son contenta e lieta
se damma errante o fer cignal saetto.

APOLLO
Ah, che non sol di fere
saettatrice sei,
ma contro a gli alti Iddei
saette aventi da le luci altere.

DAFNE
Del ciel gli eterni Numi
umile onoro e còlo,
e per le selve solo
pongo su l’arco i dardi:
ma tu per giuoco il mio cammin ritardi.

APOLLO
Deh non sdegnar che teco
prenda ne’ boschi anch’io dolce diletto;
anch’io so tender l’arco, anch’io saetto.
E qui pur dianzi insanguinato ha l’erba,
trofeo di questa man, belva superba.

DAFNE
Serva di Cintia, altri che l’arco mio
meco non voglio. Invïolabil legge
vuoi ch’io recusi per compagno un Dio.

APOLLO
Ohimè! Non tanta fretta:
aspetta, Ninfa, aspetta.

TIRSI
Oh come ratta fugge! Ed è già lunge.
Veder vo’ s’ei la giunge.

AMORE
Ve’ che ti giunsi al varco:
oh impara a disprezzar l’etate e l’arco!

PASTORE DEL CORO (III)
Qui Fiton giacque estinto,
trofeo d’Apollo; e qui trafitto il cuore
pianse il gran vincitor, trofeo d’Amore.

AMORE
Or su de l’alto cielo
mirin gli eterni Dei
le glorie e i vanti miei;
e voi quaggiù, mortali,
celebrate il valor de gli aurei strali.

PASTORE DEL CORO (I)
Altri celebri e canti,
trofei del sommo Giove,
le fulminate moli e i rei Giganti:
io canterò d’Amor l’inclite prove.

CORO
Una al pianto in abbandono
lagrimando uscì di vita,
che fu poi per gli antri udita
rimbombar, nud’ombra e suono:
or qui più non ha perdono,
più non soffre Amor irato
l’impietà del core ingrato.

Punto ‘I sen di piaga acerba
da quell’armi ond’altri ancise,
non pria fine al pianto ei mise
che un bel fior si fe’ sull’erba.
O beltà cruda e superba,
non fia già ch’invan m’insegni
come irato Amor si sdegni.

 

SCENA IV

AMORE
Qual de’ mortali o de’ celesti a scherno
più recherassi Amore?
Ah bella, ah fera,
benché fasciato gli occhi, io ben scerno
ridi, ridi pur lieta, anima altera,
vanne fastosa pur, vanne superba
de le lagrime altrui, di tua bellezza.
Ma quest’armi pungenti,
quest’arco e queste piume
rimira, e ti rammenti
che fatto ho sospirar del cielo un Nume.

VENERE
Figlio, dolce diletto
del cor, de gli occhi miei,
come sì lieto e baldanzoso sei?
Dillo, bel pargoletto,
dimmelo, Amor, che anch’io
senta le gioie tue dentr’al cor mio.

AMORE
Madre, di gemme e d’oro
un bel carro m’appresta;
ponmi su l’aurea testa
nobil fregio d’onor, cerchio frondoso;
vegganmi oggi gli Dei de l’alto cielo
trionfator pomposo.
Quel Dio, ch’intorno gira iI carro luminoso,
vinto da l’arco mio piange e sospira.

VENERE
Qual degl’lddei del cielo
de la faretra invitta
non sentì dentr’al cor pungente telo?
lo, che madre ti sono, ahi quanto, ahi quanto
iI molle sen trafitta,
e ‘n ciel e in terra ho lagrimato e pianto!

AMORE
S’hai lagrimato e pianto, hai riso ancora.
Dimmi, piangevi allora
che del Fabro geloso
non potesti schivar l’inganno ascoso?

VENERE
Taci, taci, bel figlio;
pur troppo, e tu lo sai
il mio bel viso allor si fe’ vermiglio:
ma di tornare al cielo è tempo ormai.

CORO
Non si nasconde in selva
sì dispietata belva,
né su per l’alto polo
spiega le penne a volo auge! solingo,
né per le piagge ondose,
tra le fere squamose alberga core
che non senta d’amore.

Arder miriam le piante
l’una de l’altra amante,
e gli elementi ancora
bel foco arde e innamora, e ‘nsieme accorda:
sol contro gli aurei strali
i semplici mortali armano il core
che non senta d’amore.

Questi l’albe e le sere
perde cacciando fere,
e quei, s’al del rimbomba
di Marte altera tromba, a l’armi corre;
altri la mente vaga
di mortai fasto appaga e ‘ndura il core
che non senta d’amore.

Ma se d’un ciglio adorno
mira le fiamme un giorno.
O, pregio d’un bel volto,
scherzar con l’aure sciolto un capei d’oro,
già vinto ogni altro affetto.
Prova ch’in uman petto non è core
che non senta d’amore.

 

SCENA V

TIRSI
Qual nova meraviglia
veduto han gli occhi miei?
O sempiterni dei,
che per lo ciel volgete
nostre sorti mortali o triste o liete,
fu castigo o pietate
cangiar l’alma beltate?

PASTORE DEL CORO (III)
Pastor, deh narra a noi
le nove meraviglie,
che visto han gli occhi tuoi.

TIRSI
Non senza trar dal core
lagrime di dolore
udirete, Pastori,
iI destin de la bella cacciatrice
purtroppo miserabile e ‘nfelice.

PASTORE DEL CORO (III)
Di’ pur, saggio Pastore,
che non senza dolcezza
lagrima per pietate un gentil core.

TIRSI
Quando la bella Ninfa,
sprezzando i prieghi del celeste amante,
vidi che per fuggir movea le piante,
da voi mi tolsi anch’io
l’orme seguendo de l’acceso Dio.
Ella, quasi cervetta
che innanzi a crudo veltro il passo affretta,
fuggìa veloce, e spesso
si volgeva a mirar se lungi o presso
avea l’odiato amante;
ma, fatt’accorta ornai
ch’era ogni fuga in vano,
i lagrimosi rai
al ciel rivolse e l’una e l’altra mano,
e ‘n lamentevol suono,
ch’io non udii, che troppo era lontano,
sciolse la lingua: et ecco in un momento
che l’uno e l’altro leggiadretto piede,
che pur dianzi al fuggir parve aura o vento,
fatto immobil si vede
di salvatica scorza insieme avvinto,
e le braccia e le palme al ciel distese
veste selvaggia fronde:
le crespe chiome e bionde
più non riveggo e ‘I volto e ‘I bianco petto;
ma del gentile aspetto
ogni sembianza si dilegua e perde;
sol miro un arboscel fiorito e verde.

PASTORE DEL CORO (III)
O miserabil caso, o destin rio!
Che fe’, che disse allora
l’innamorato Dio?

TIRSI
A l’alta novitate
fermò repente il passo,
e, confuso d’orrore e di pietate,
restò per lungo spazio immobil sasso.
Poscia a le frondi amate,
alzando gli occhi sospirosi e molli,
stese le braccia e ‘I nobil tronco avvinse
e mille volte ribaciollo e strinse.
Piangean d’intorno le campagne e i colli,
sospiravan pietosi e l’aure e i venti;
et ei nel gran dolore
sciogliea sì mesti accenti,
ch’io sentii per pietà mancarmi il core.

PASTORE DEL CORO (III)
Ahi dura, ahi ria novella!
Mira, deh, Tirsi mio, che il ciel ne piange,
senti gli augei lagnar tra’ secchi rami
e le fere ulular per le campagne:
odi come piangendo ognun la chiami.

NINFA DEL CORO (II)
Piangete, o Ninfe, e con voi pianga Amore;
raccogliete le penne, aure celesti,
e voi pietosi e mesti
fermate i pie’ d’argento, o fonti, o fiumi;
lagrimate ne l’alto eterni Numi.

CORO
Sparse più non vedrem di quel fin oro
le bionde chiome a ‘I vento;
ahi! Né più s’udirà tra ‘I bel tesoro
di perle e di rubin l’alto concento.
Ahi! Ch’ecclissato e spento
è del ciglio seren l’almo splendore.
Piangete, Ninfe, e con voi pianga Amore.
Dov’è la bella man, dove il bel seno,
dove, dove il bel viso?
E dov’è il dolce riso,
dov’è del guardo il lampeggiar sereno?

PASTORE DEL CORO (III)
Ahi lagrime, ahi dolor!
Piangete, Ninfe, e con voi pianga Amore.

TIRSI
Ma, vedete lui stesso
che verso noi se ‘n viene
tutto carco di pene:
deh, come fuor del luminoso volto
traspare il duol c’ha dentr’al petto accolto.

 

SCENA VI

APOLLO
Dunque ruvida scorza
chiuderà sempre la beltà celeste?
Lumi, voi che vedeste
l’alta beltà, che a lagrimar vi sforza,
affisatevi pure in questa fronde:
qui posa, e qui s’asconde
iI mio bene, il mio core, il mio tesoro,
per cui, ben ch’immortal, languisco e moro.

TIRSI
Deh come invan s’affigge, invan si duole!
Odilo, bella Dafne, e godi almeno
che le sventure tue lagrimi il Sole!

APOLLO
Un guardo, un guardo appena,
un guardo appena, ahi lasso!,
affissai ne la fronte alma e serena
che disdegnosa, ohimè!, volgesti il passo.
Semplicetta beltà qual te n’avesti
ma non sapeva ancora
che offesa non buon fa di lei celesti.
Non mai nell’alto polo
volgerò della luce il carro ardente
che, misero e dolente,
gli occhi girando alle frondose chiome
non chiami mille volte il tuo bel nome.
Ninfa degnosa e schiva,
che fuggendo l’amor d’un Dio del cielo,
cangiasti in verde lauro il tuo bel velo,
non fia però ch’io non t’onori et ami,
ma sempre al mio crin d’oro
faran ghirlanda le tue fronde e’ rami.
Ma deh! se in questa fronde odi il mio pianto,
senti la nobil cetra,
quai doni a te dal ciel cantando impetra:
non curi la mia pianta o fiamma o gelo,
sian del vivo smeraldo eterni i pregi,
né l’offenda già mai l’ira del cielo.
I bei cigni di Dirce e i sommi regi
di verdeggianti rami al crin famoso
portin, segno d’onor, ghirlande e fregi.
Gregge mai né pastor fia che noioso
del verde manto suo la spogli e prive:
a la grat’ombra il dì lieto e gioioso
traggan dolce cantando e ninfe e dive.

CORO
Bella Ninfa fuggitiva,
sciolta e priva
del mortal tuo nobil velo,
godi pur pianta novella,
casta e bella,
cara al mondo, e cara al cielo.

Tu non curi e nembi, e tuoni;
tu coroni
cigni, regi, e dèi celesti:
geli il cielo o ‘nfiammi e scaldi,
di smeraldi
lieta ogn’or t’adorni e vesti.

Godi pur de’ doni egregi;
i tuoi pregi
non t’invidio e non desio:
io se mai d’amor m’assale
aureo strale,
non vo’ guerra con un Dio.

Se a fuggir movo le piante
vero amante,
contra amor cruda e superba,
venir possa il mio crin d’auro
non pur lauro,
ma qual è più miser’erba.

Sia vil canna il mio crin biondo
che l’immondo
gregge ogno’or schianti e dirame;
sia vil fien, ch’a i crudi denti
de gli armenti
tragga ogn’or l’avida fame.

Ma s’a’ preghi sospirosi,
amorosi,
di pietà sfavillo ed ardo,
s’io prometto a l’altrui pene
dolci spene
con un riso e con un guardo,

non soffrir, cortese Amore,
che ‘l mio ardore
prenda a scherno alma gelata,
non soffrir ch’in piaggia o ‘n lido
cor infido
m’abbandoni innamorata.

Fà ch’al fuoco de’ miei lumi
si consumi
ogni gelo, ogni durezza;
ardi poi quest’alma allora
ch’altra adora,
qual sia la mia bellezza.

 

 

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