Parisina

Opera in quattro atti

Musica di Pietro Mascagni
Libretto di Gabriele d’Annunzio

Prima rappresentazione: 15 dicembre 1913, Teatro alla Scala, Milano.
Fonti letterarie: dal poema omonimo di George Gordon Byron.

Personaggi
Parisina Malatesta soprano
Ugo d’Este tenore
Stella dell’Assassino mezzosoprano
Nicolò d’Este baritono
Aldobrandino de’ Rangoni basso
La Verde mezzosoprano

Libretto – Parisina

ATTO PRIMO

La Villa Estense nell’Isola del Po
Per le sovrapposte logge del palagio
appariscono le fanti e i garzoni
ai telai, alle opere dell’ago,
alle opere dei profumi, ai giuochi, ai concerti,
aggruppati e atteggiati come saran più tardi
sotto il reggimento di Borso dei freschi di Schifanoia.
Ciascuna piccola compagnia ha la sua foggia,
il suo officio, la sua voce corale;
e tutte per entro l’architettura aerea vivono
quasi sciami in uno smisurato alveare.
Nel barco estense – che si spande con i suoi vivai,
con i suoi serbatoi, con le sue peschiere
sino ai margini dell’isola –
Ugo d’este, il figlio del Marchese
Nicolò III e di Stella de’ Tolomei,
si esercita al tiro della balestra
insieme con uno stuolo di nobili suoi coetanei.
Sovente egli sbaglia il segno e s’adira.

La Verde, una delle soprastanti, nella loggia
intona i cori con un suo strambotto lamentoso.
Ciascuna compagnia risponde a contrasto,
con forza crescente, sì che di risposta in risposta
la tenzone delle voci inasprendosi nell’urto
della rima iterata assume una veemenza selvaggia.

LA VERDE
Ohimè grido il mattino, oimè la sera,
oimè la notte, oimè da mezzo giorno,
oimè di verno, oimè di primavera,
oimè quando la state fa ritorno,
oimè se il cor si strugge, oimè se spera,
oimè s’io poso, oimè se vado a torno,
oimè se dormo, oimè da tutte l’ore,
oimè pena, oimè doglia, oimè ‘l mio core!

LA PRIMA COMPAGNIA
Gridate tutti, amanti, al foco al foco
al foco che mi strugge per amore,
correte tutti insieme al loco al loco
al loco dove brucia lo mio core.

LA SECONDA COMPAGNIA
La rocca ben fondata spacca spacca
con le bombarde se prendere la vuoi;
il leone adirato stracca stracca
ché in altro modo vincer non lo puoi.

LA TERZA COMPAGNIA
Amor grida al mio spirto: fora fora
fora da questo corpo, spazza spazza!
Amor grida più forte: mora mora!
Grida il crudel tiranno: ammazza ammazza!

LA QUARTA COMPAGNIA
Carne carne, ch’io sono a tradimento
d’amor ferito, correte correte!
Alla morte alla morte, ch’io son spento!
Arme arme, soccorrete soccorrete!

TUTTO IL CORO
La morte grida e dice: Viene viene!
A sacco a sacco, vendetta vendetta!
Rispondo e dico: Or ecco le mie vene.
Grida ella: Falce falce! Aspetta aspetta!

Ugo d’Este anco una volta sbaglia il segno.
Impazientito, getta a terra la balestra.
Aspro, rimbrotta gli uguali.
Di parola in parola
la sua concitaziaone sale sino al furore.

UGO D’ESTE
Per Madonna Ferrara,
ogni colpo mi falla!
Non tien la mira la balestra. Alcuno
di voi, ah certo, m’ha falsato l’arme
per tristizia. Io lo so.

I COMPAGNI
per tristizia. Io lo so. – Che dici mai?
Be’, togli questa!
Be’, togli questa! – Questa
che fu provata da Maestro Fiore
il Friolano.
– Prendi la mia. Ripròvati con questa.
– Se alcuno ti falsò arco o teniere
o corda, eleggi quale ti sia meglio
e riprova.
e riprova. – Non arco, non teniere,
non corda, ma sì l’occhio a mira certa
e le gomita ferme
e salde le calcagna;
ché non vale quadrello d’ariento
a far il buon balestratore.

UGO D’ESTE
a far il buon balestratore. Ma
di ferro mi valga, Azzo, a configgerti
la lingua lunga al mento
e il mento alla strozza,
se non l’alloghi.

ALDOBRANDINO RANGONE
se non l’alloghi. O mio
Ugo, perché t’adiri?

UGO D’ESTE
Ugo, perché t’adiri? Alcuno ghigna?
Volete or dunque ch’io riprovi? Stanco
io son di balestrare a segno morto.
Volete voi combattere? Raccolgo
l’arme che mi falsaste,
e pur con questa io dico
che solo valgo contra tutti voi.
Balestrerò senza pavese e senza
giaco, e col capo
scoperto, e a tutta gola
cantando lo strambotto del macello.
“Menatemi al macel se far volete
cosa che piaccia al mio dannato core”.

ALDOBRANDINO RANGONE
O Ugo, o Ugo, che follia t’acceca?

UGO D’ESTE
Attutar la follia di primavera
mi bisogna. Mangiato ho il miel selvaggio,
Aldobrandino, e perso
ho l’anima nei vènti.

Con un atto graterno Aldobrandino
lo prende fra le sue braccia;
mentre già al suo cenno i compagni
attoniti o accigliati si ritraggono, scompariscono tra gli alberi.
Dalle logge discende la ripresa del coro,
ma con suono più lontano.

IL CORO DELLE FANTI E DEI GARZONI
Sapete perché grido guerra guerra?
Perché pace non trovo al mio languire.
Sapete perché grido serra serra?
Perché le porte non mi vole aprire….

ALDOBRANDINO RANGONE
Ugo, perché sei tanto corrucciato
senza cagione?
Quale angoscia ti stringe, che me celi?
Di che male infermato
sei, che nascondi al fido fratel tuo?

Ora i giovani balestratori cantano,
verso il fiume, come a dispetto.

IL CORO DEI COMPAGNI
All’uomo d’arme trombetta trombetta
se vuoi che vada ben sotto la lancia.
Al saccomanno falcetta falcetta
se in campo non tien dritta la bilancia….

UGO D’ESTE
Sono infermo di gioia,
ti dico, fratel mio.
Odo il mio sangue
cantare come tutte le fontane
di Belfiore. Entro il petto
il cor vivo mi balza
come il cerbiatto che il mio padre insegue
nelle selve di Po.
Se di gioia si muore, lode a Dio,
io son prossimo a morte,
Aldobrandino.

ALDOBRANDINO RANGONE
Aldobrandino. Parli
come chi esca di senno o trasogni.

UGO D’ESTE
“Che foco è questo ch’arde e non
consuma?
Che piaga è questa che sangue non
getta?”
Mangiato ho il miel novello,
ti dico, Aldobrandino.
E voglia ho di cantare e di combattere.
“Chi m’a dato quest’ale senza
piuma?
Chi m’addimanda e chiama e non aspetta?”

Una fante di Stella dell’Assassino appare
furtiva tra la fronda. Cauta si accosta.

LA FANTE
O Messer Ugo, Messer Ugo, qui
presso è la vostra madre
Madonna Stella.
Perdonato da voi mi sia. Condotta
io l’ho. Voi la vedete.

Subitamente la Tolomei si mostra come chi esca dall’agguato.
La favorita di Niccolò d’Este, non più giovine,
è ancor bella e possente.
Ella si slancia verso il figlio con un’ansia impetuosa,
e lo stringe fra le sue braccia.
Egli le si abbandona, quasi divenuto fragile a un tratto,
ridivenuta fanciullo. Aldobrandino si ritrae, s’allontana.

STELLA DELL’ASSASSINO
O tristo, tristo, che per rivederti
debba la madre tua mettere agguati
dove la viperetta di Cesena
ha preso il luogo!
Sei tu prigione? o viperato sei?
Ugo, figlio mio dolce,
gli occhi hai pieni di lacrime! Che pianto
è questo?

UGO D’ESTE
e questo? Ah, di dolcezza,
madre.

STELLA DELL’ASSASSINO
madre. Smagrato
mi sembri, e fatto pallido;
e intorno agli occhi il cerchio degli insonni
hai, su le gote scarne;
e troppo t’arde l’alito
come se febbricassi, o bello e dolce
figlio. Che hai? Che hai?
Ah, non me sbigottire.
Di che soffri, o mio bello e dolce figlio?
Di che t’angosci? Dimmi.

UGO D’ESTE
Non so, madre, non so.
Il cor m’è cieco, e ondeggia per un mare
pien di fragore e d’ombra. E sotto il vento
lagni raccolgo e doglia,
e rimpianto di ciò che fu perduto
per me, se bene
non mi sovvenga.

STELLA DELL’ASSASSINO
O fiore di mia vita,
che mai non diedi perché tu fiorissi?
Ti diedi col mio petto
la speranza del mondo e il novel tempo
e tutte l’allegrezze ch’ei rimena.
Mi feci come l’alba e la rugiada
per addolcirti.
Or sei diviso da me, sei reciso
da me, o fiore
della mia carne; e sol rimasta è in me
una radice amara
che non si può divellere. Ah, non soffri
per questo? Dimmi, dimmi.

UGO D’ESTE
Così m’avessi tu, madre, tenuto
in te chiuso, m’avessi
tu suggellato in te,
m’avessi fatto tuo
per sempre nel tuo sangue e nel tuo soffio;
e prima le tue braccia dato avessi
al taglio crudo, che lentar la stretta,
o madre!

STELLA DELL’ASSASSINO
o madre!Mio mio mio ti sento, o bello
e dolce figlio, mio
in me, risuggellato in me! Tu m’ami,
tu m’ami. Trista t’è la vita, dove
la mia nemica sul to viso spia
la mia vendetta….
Ansiosa, ella gli parla con l’alito nell’alito.
la mia vendetta…. Dimmi,
ah dimmi: se tu m’ami, l’odii?

Smarrito e tremante, il figlio muove
le labbra quasi senza soffio.

UGO D’ESTE
ah dimmi: se tu m’ami, l’odii? Chi?
chi, madre?

STELLA DELL’ASSASSINO
chi, madre? L’odii tu,
con tutte le tue vene?

UGO D’ESTE
Chi, madre?

STELLA DELL’ASSASSINO
Chi, madre? Parisina Malatesta.
Egli rovescia in dietro il capo.
Come ti sbianchi! Come il cor ti balza!
Ah, mio figlio verace! Tanto dunque
tu l’odii? Lascia ch’io t’ascolti il cuore.
Figlio, che cuor terribile t’ho fatto!
Suona come il brocchiere
percosso dal martello d’arme.

UGO D’ESTE
percosso dal martello d’arme. Sì,
madre, sì, per la Lupa
della tua Siena!
Una forza terribile mi gonfia
il cuore come quando
la spada è tratta, la balestra è carica,
e la polvere della prima schiera
s’alza con l’ansia
della battaglia, e vampa
d’allegranza è la fronte
del feditore,
e in qualche luogo, in un cammin selvaggio,
per una ripa verde,
entro una fresca valle,
in qualche luogo solo
è la morte, e sul capo della morte
la ghirlanda del sonno.

STELLA DELL’ASSASSINO
Così combatterai
per la tua signoria
a che t’ho fatto, o figlio
di leonessa.

UGO D’ESTE
M’hai fatto per morire.
Se tu m’ascolti il petto,
odi il rombo rimoto.
Strano latte ti bevvi.
Quali erano i tuoi sogni
quando tu mi portavi?

STELLA DELL’ASSASSINO
Sogni di leonessa,
se protesa è la branca
non per morire ma per dar la morte.
Tanto non sai? Se vivere non vuoi
come tu vivi,
non osi tu guardare la vergogna
nostra e l’ammenda?

UGO D’ESTE
Ah, che vuoi dunque? Di’: ch’io mi ribelli
al mio padre? ch’io tagli il nodo?

STELLA DELL’ASSASSINO
al mio padre? ch’io tagli il nodo? No.
Sofferitore sei. Sei paziente.
Ti curvi al giogo ruminando l’odio
come il vitello rumina il suo strame,
Ugo bastardo.

UGO D’ESTE
Hai il pungolo crudele,
madre.

STELLA DELL’ASSASSINO
madre. Non hai più madre.
Hai la matrigna
che ti dà ‘l pane e rigna.
E tu t’appaghi di menar la vita
del bastardello,
e i suoi cani di séguito tenerle
a guinzaglio, e portare al collo l’arpa;
ché Maestro Domenico Calceda
per te le fece il cordoncin di seta….

UGO D’ESTE
Ah, leonessa, come mordi e strazii!
Forzi a follia
il folle. Brama
non ho se non di perdermi,
oggi. E meglio perire
m’è ch’essere a guinzaglio.
E sia laccio per laccio,
servaggio per servaggio,
peccato per peccato,
se mi bisogna abbeverar colei
che mi nudrì. Giungesti
in punto, in giorno propizio, giungesti.
Or ella è con le sue donne e la sua
arpa sul suo ginocchio
tien, forse; e canta.
E salgo, e le apparisco.
E, cacciatole in gola quella corda
di seta, onde m’irridi,
io te la traggo. Te la traggo ai piedi
ancóra palpitante,
che tu la calchi, che le schiacci il capo….

STELLA DELL’ASSASSINO
Taci, taci! Furor non giova, grido
non vale. Siimi cauto.
Non ti forzo a follia,
e non a perdimento.
Uopo non t’è di laccio, né di daga,
ma di silenzio
e di man lieve.
A sé lo trae, lo circonda.
Egli chiude le palpebre su l’anima sua disperata.
Fatti più presso. Vieni sul mio petto.
Ti serro; in me ti chiudo; ti suggello
in me. T’ho nel mio sangue e nel mio soffio.
Ecco, ti porto ancóra
io nell’amor mio solo,
che tu rinasca da me. Non tremare.
Dimmi: tu l’odii?

UGO D’ESTE
Dimmi: tu l’odii? L’odio.

STELLA DELL’ASSASSINO
Non per te, non per me
v’è salute, finché viva. Lo sai?

UGO D’ESTE
Lo so.

STELLA DELL’ASSASSINO
Lo so. Ma non tremare.
Far vuoi la mia vendetta?

UGO D’ESTE
Voglio.

STELLA DELL’ASSASSINO
Voglio. Ma non col ferro.
Vendetta cauta.
M’ascolti?

UGO D’ESTE
M’ascolti?Ascolto.

STELLA DELL’ASSASSINO
Se ti sovviene della morte lenta
d’Azzolino, ho la fiala…. Hai tu compreso?

UGO D’ESTE
Dammela.

STELLA DELL’ASSASSINO
Dammela. Ma ti sfugge,
se tremi.

UGO D’ESTE
se tremi. Dammela.

STELLA DELL’ASSASSINO
A stilla, a stilla,
accorto e cauto…. Hai tu compreso?

UGO D’ESTE
accorto e cauto…. Hai tu compreso? Dammela.

STELLA DELL’ASSASSINO
A stilla a stilla.

Risorge ora nella loggia il coro feminile,
e gli sciami sembrano agitarsi per le arcate aeree.

IL CORO DELLE FANTI
Che foco è questo ch’arde e non
consuma?
Che piaga è questa che sangue non
getta?
Chi m’a dato quest’ale senza piuma?
Chi m’addimanda e chiama e non aspetta?

Parisina Malatesta appare in cima alla scala
seguita da una schiera di giovani sonatrici
che portano strumenti e intavolature,
come nel trionfo di Venere su la parete di Schifanoia.

UGO D’ESTE
È Parisina, è Parisina. Madre,
madre, odi. È Parisina.
Ecco, viene. Ecco, scende.

STELLA DELL’ASSASSINO
Ti dà terrore? Voce
hai di fuggiasco.

UGO D’ESTE
hai di fuggiasco. Non ti partirai?

STELLA DELL’ASSASSINO
No, non mi partirò.

Come le donne scorgono la Senese, sbigottiscono;
e in timore sussurrano intorno alla lor signora.

LE SONATRICI
– O Madonna, Madonna,
scendere non vogliate!
scendere non vogliate! – Ritraetevi,
Madonna, in grazia.
Madonna, in grazia. – È la Senese, quella
de’ Tolomei, la madre di Messere
Ugo.
Ugo. – N’avrete scorno,
Madonna.
Madonna. – Non vogliate seguitare!
– È la Senese. Ell’è
Stella dell’Assassino,
bandita da Messere Nicolò.
– Agguatata e appostata v’ha, per certo.
– Malvagia ell’è. Non iscendete, in grazia.
– Meglio la spalla volgere, Madonna.

Ma la madre di Ugo arditamente si fa a pié
della scala, e scaglia l’oltraggio.

STELLA DELL’ASSASSINO
O Parisina Malatesta, figlia
dell’Ordelaffa, sangue
di rubatori, traditori e drude,
color di vita più non hai, né osi
fisar negli occhi miei gli occhi tuoi falsi;
ma non temere,
ché toccarti non degno.
Non io ti strapperò con le mie mani
alla soglia non tua
dove giugnesti quando ti vendette
il tuo padre in Cesena
come schiavetta al giacitore d’Este;
e non nubile ancóra
eri, troppo al mercato acerba! No,
l’anima perdere
non mi vale per sí vil sangue. Sopra
ti sta castigo più tremendo, più
che se tutte le spine della terra
io configgessi in te senza riposo.
E ti lascio il presagio nella bocca
come sete mortale
e polvere di fossa.
E t’impreco sul capo del mio figlio
che ti fa onta.

S’ode per il folto del barco il suono dei corni,
il latrato delle mute, il grido dei canattieri.
Nicolò d’Este ritorna dalla caccia d’oltre Po.
Il clamore s’avvicina. Lanciata l’ultima imprecazione,
la Tolomei si ritrae, scompare tra gli alberi con la fante,
per la via ond’è venuta.
Fa l’atto di seguitarla il figlio, poi s’arresta,
rimanendo in disparte; mentre Nicolò arriva col suo stuolo
di cacciatori che suonano e cantano.
Bei cani accoppiati e bei cavalli bardati egli ha seco,
come Borso su la parete di Schifanoia
sotto il segno dell’Ariete.
Su la scala le donne sorreggono
la figliuola di Lucrezia degli Ordelaffi,
soffocata dalla vergogna e dal furore.
La vede il marito e giocondamente la chiama.

IL CORO DEI CACCIATORI
Non dormite, o cacciatore,
ché la cerva s’è scoperta:
la ne vien qua tutta esperta
per mangiare erbette e fiore.
per mangiare Non dormite, o cacciatore.
L’è sì pronta nel fuggire
che la pare un lionpardo:
non è veltro sì gagliardo
ch’a lei possa pervenire:
l’ha già fatto sbigottire
ne le selve più pastore.
per mangiare Non dormite, o cacciatore.

NICOLÒ D’ESTE
Mia donna, quanta preda, quanta preda!
Di cervi e cavriuoli
noi caricammo un burchio a passar Po,
e pel soverchio carico mettemmo
a rischio il legno che prendeva l’acqua
insino al tiemo;
e si vogava nel vermiglio. O Strozzo,
Braccio, recato sia
innanti il cervo di tredici palchi.
Dov’è Ugo?
Con tale aspetto il giovine s’avanza verso il padre,
che questi a un tratto fiuta la bufera.
Dov’e Ugo? Or qual viso
fai tu figliolo! E voi,
mia donna?

Lascia dietro sé le sonatrici Parisina,
discendendo qualche grado.

PARISINA
mia donna? Non io più
sono la donna vostra,
signore.

NICOLÒ D’ESTE
signore. Or che v’accadde? Anco una volta
veniste a rissa? Chi la mosse prima?
Ditemi, donna.

PARISINA
Ditemi, donna. Non più son la donna
vostra; ma son la schiava
di vil sangue venduta
dal mio padre al piacer vostro, sicché
lecito è che qualsisía
delle passate vostre concubine
mi getti vituperio e mi minacci
di trascinarmi
per i capegli,
come schiava ch’io sono,
fuor delle vostre soglie….

NICOLÒ D’ESTE
fuor delle vostre soglie…. Chi, chi mai
tanto s’ardi?

PARISINA
tanto s’ardi? Stella de’ Tolomei,
Stella dell’Assassino, la malvagia
femmina, la rabbiosa
lupa….

Irrompe Ugo a mozzarle su le labbra l’ingiuria.

UGO D’ESTE
lupa…. Ah serrate,
ah soffocato quella bocca, padre,
o io, se Dio mi danna,
farò che taccia.

NICOLÒ
faro che taccia. Me
Dio danna, me percote,
che sempre mi travaglio
tra odio ed ira, tra rancura e furia
per careggiarti, per averti presso
il cor mio, per colmarti d’ogni dono
e d’ogni onore e d’ogni
carezza, mentre
ogni dì mi ti mostri più selvaggio….

La veemenza del giovine non ha più freno.

UGO D’ESTE
Ah, meglio in selva vivere che in questa
onta; meglio campar la vita in arme
alla ventura sotto una masnada
che in coppa d’oro tracannare il tossico;
e meglio anco morire a ghiado, in capo
di strada, stando a barre ed a serraglia
con la balestra
e con la stipa,
come bastardo ribelle….

NICOLÒ D’ESTE
come bastardo ribelle…. Minacci?

UGO D’ESTE
La vita non mi vale
più che la pelle del cervo sbranato
dai tuoi cani. Mi parto
alla ventura; e solo
il cavallo ti prendo.
E ch’io m’imbatta nella morte, prima
che il sol novello fieda
gli occhi miei senza sonno!
Né più mi rivedrai vivo, né più
increscerò a quella che t’acconcia
il letto e figli
ti darà men selvaggi….

Subitamente Parisina scoppia in un gran pianto.
Intorno al pianto si fa grave silenzio.
S’ode nel silenzio venire dall’interno della loggia
più lontana il canto attenuato.

IL CORO DELLE FANTI
Sapete perché grido guerra guerra?
Perché pace non trovo al mio languire.
Sapete perché grido serra serra?
Perché le porte non mi vole aprire….

ATTO SECONDO

La Santa Casa di Loreto
Appare la Casa di Nazareth, la semplice casa
di Gioachino e di Anna, costrutta di pietre rossastre,
con una porta, con una finestra, con un focolare,
con un altare, quella che nella notte di maggio
gli Angeli traslatarono su le loro ali alla spiaggia
di Schiavonia e nella notte di decembre all’opposta riva,
alla marca di Ancona, entro la selva dei lauri.
Per la porta spalancata si scorge brillare fra i torchi
e le lampade la Vergine nera, scolpita nel legno di cedro
dalla mano di Luca Evangelista,
coperta della preziosissima veste intessuta
d’oro e di gemme.
Le mura degli Ospizii s’alzano dietro il Santuario.
Di là dal laureto splende il Mare Adriatico.
In contro al recinto, ove i monaci e i sacerdoti
ricevono le offerte, è spiegato il ricco padiglione
della pellegrina di Ferrara,
distinto delle Aquile e dei Fiordalisi estensi.
Presso il limitare del padiglione tre donzelle sedute,
con su le ginocchia gli organi portatili, suonano e cantano.
Quivi è Parisina; e la figlia di Nicolò di Oppizi,
la Verde, le acconcia i capelli.
S’approssima l’ora della Salutazione angelica,
nel vespro di maggio. S’ode una cantilena di marinai.
Le vele latine rosseggiano in mare.
La cantilena del remo e della vela si mesce
alle litanie degli Ospizii, alle laudi della chiericia.
L’aria, presso e lontano, arde tutta quanta melodiosa.

LA SEQUENZA DELLE TRE DONZELLE
Ave Maria, gratia plena.
Teco è il Signore.
Benedetta infra le donne
a tutte l’ore.
Benedetto il frutto e il fiore
del tuo ventre, Maria.
Ave, donna graziosa.
Quando a tal soglia
venne l’Annunciatore,
favellasti in ardore:
Sono ancilla del Signore.
Come dici, cosè sia.
Allor in te discese
il Spirito Santo.
Ma dir non di potria quanto
il tuo corpo oliva intanto,
se ole del tuo pianto
cielo e terra tuttavia.

LAUS VIRGINIS
O cunctarum
feminarum
decus atque gloria,
quam electam
et provectam
scimus super omnia;
virga Jesse,
spes oppressae
mentis et refugium,
decus mundi,
lux profundi,
Domini sacrarium;
clemens audi
tuae laudi
quos instantes conspicis;
munda reos
et fac eos
bonis dignos coelicis.

LA CANTILENA DEI MARINAI
Stella del mare,
aiuta aiuta!
Per costa e per altura,
a misura e battuta,
Maria, Vergine pura,
tu voglici aitare.
tu voglici aitare.Oh voga! Ponza!
Stella del mare,
attrezza attrezza,
alla vela alla vela!
Vergine benedetta,
vieni all’arbore in vetta,
vien presto e non tardare.
tu voglici aitare.Oh issa! Borda!

LE LITANIE LAURETANE
Sancta Maria, ora pro nobis.
Sancta Dei Genitrix,
Sancta Virgo Virginum,
Mater Christi,
Mater divinae gratiae,
Mater purissima,
Mater castissima,
Mater inviolata,
Mater intemerata,
Mater amabilis,
Mater admirabilis,
Mater Creatoris,
Mater Salvatoris, ora pro nobis.

Parisina è seduta sotto il padiglione.
La Verde l’acconcia e abbiglia.
Nei cofani aperti brillano le robe e gli ornamenti.

PARISINA
Ahi, Vergine Maria,
Consolatrice degli afflitti, ahi me,
ahi che la notte s’avvicina!

LA VERDE
ahi che la notte s’avvicina! Dama,
di che voi vi lagnate?

PARISINA
O Verde, ora tu m’hai
a disfare le trecce
che m’acconciasti.

LA VERDE
che m’acconciasti. Dama, perché mai?

PARISINA
Tonderle voglio e offerirle a Nostra
Donna per vóto,
tonderle insino alla radice.

LA VERDE
tonderle insino alla radice. Dama,
non farete voi questo.

PARISINA
non farete voi questo. Mi risveglio
la notte con la faccia divampata
entro i capegli sparsi
come fiamme; e l’odore
mi soffoca. Non più, non voglio più
che tu me li profumi, come fai,
insino ov’è ‘l pensiero mio nemico.
Ahi che la notte s’avvicina, Vergine
clemente!

LA VERDE
clemente!Non ismaniate, Dama!
o mai non finirò
d’acconciarvi.

PARISINA
d’acconciarvi. Qual roba
mi metti? La più bella, la più bella,
quella di panno d’oro
fodrata d’armellini;
e il mantello fiamengo,
gli zoccoli d’argento,
e la rete, e la borsa, e il vel di Candia,
e tutte le collane al collo, tutti
alle dita gli anelli,
e la cintura
per cingermí più ricca, la più alta,
quella a perle e balasci; ch’io sia carica
di gioie, ch’io mi porti
addosso quel che m’è più caro.

LA VERDE
addosso quel che m’è più caro. Dama,
quello che più v’è caro
voi non l’avete già ne’ vostri cofani
ma nel cor chiuso; e non ho io la chiave.

PARISINA
Inginòcchiati, copriti
il capo, e piangi.

LA VERDE
il capo, e piangi. Ah non è tempo ancóra
che in lacrime l’amor si cangi, Dama.

PARISINA
Che nome hai nominato? Dio mi salvi.
Non hai vergogna?

Come la Verde è ginocchioni a servirla,
ella si china e la prende per i capelli.
Con grazia ardita la donna acciuffata si volge,
e lancia la frottola.

LA VERDE
Amor prese Vergogna per lo mento.
E, com’ ei l’ebbe tocca,
ella si fece bianca. Sacramento
fu ‘l bacio nella bocca.

Parisina ritrae lentamente la mano
e socchiude le palpebre,
come invasa da sùbito languore.

PARISINA
Verde, appari gioiosa;
ma non so se tu tremi
quando indovini.
Lieve sembra il tuo cuore
come foglia novella.
Come tizzo il mio stride;
e tu sopra vi soffii.
In luogo di salute
esser può perdimento?
Ahi che la notte s’avvicina, ahi me,
Porta del Cielo!
Sono carica d’oro. Ave, Maria.
Son carica di gemme. Eccomi a te.
Sono piena di mali.
A te m’offro, Salute degli infermi.

Magnifica, si appresta ad escire dal padiglione
la marchesa di Ferrara.
Al ricchiamo della Verde uno stuolo di fanti accorre;
e dinanzi alla signora stende i tappeti,
perché ella vi cammini su gli alti zoccoli
fino ai cancelli del Santuario.
Le tre donzelle riprendono la sequenza sugli organi.
Giungono dagli Ospizii le litanie lauretane.
S’ode a quando a quando per la marina suono di bùccine,
e l’invocazione alla Stella del mare.

LA CANTILENA DEI MARINAI
Stella del mare,
aiuta aiuta!

LA SEQUENZA DELLE TRE DONZELLE
Ave Maria, gratia plena.
Teco è il Signore.
Benedetta infra le donne
a tutte l’ore.
Benedetto il frutto e il fiore
del tuo ventre, Maria.

LE LITANIE LAURETANE
Virgo prudentissima,
Virgo veneranda,
Virgo praedicanda,
Virgo potens,
Virgo clemens,
Virgo fidelis,
Speculum justitiae,
Vas spirituale,
Vas honorabile,
Vas insigne devotionis, ora pro nobis.

LA CANTILENA DEI MARINAI
Stella del mare,
aiuta aiuta!

Parisina si avanza verso i cancelli,
per la preghiera e per l’offerta.
Di dietro i cancelli l’officiatore,
assistito dagli acoliti, riceve i doni preziosi.

PARISINA
Bene morrò d’amore,
bene morrò d’amore
per te, mistica Rosa, e pel tuo Figlio.
Per te aulente Giglio,
morrò d’amore.
La pellegrina si toglie a una a una le sue gioie per offerirle.
Poi si toglie la cintura, la vesta, il mantello, gli zoccoli;
sì che rimane con una semplice tonacella di tabì bianco
e con i calzaretti di tela d’argento.
Ecco la rete
de’ miei capelli.
Di vigilanza io resti inghirlandata.
Ecco il mio velo.
Sul viso ignudo
io riceva da te la tua rugiada.
Ecco le mie collane.
Eco tutti gli anelli.
Ecco il mio manto,
che non ha stelle.
Della tua grazia
ammanta il mio dolore.
Ecco il mio cinto
che sì m’aggrava.
La mia fatica
fascia del tuo vigore.
Ecco io mio drappo
che brilla e opprime.
Sol porti io vestimento
di caritade.
Ecco, mi tolgo
anco i calzari.
Bianca e scalza io cammini
per le tue strade.

Rimasta con la tonacella bianca, avendo compiuta l’offerta,
ella si prostra col volto sina a terra.
Le donne dietro di lei racattano i tappeti
per segno della sua umiliazione.
Il suono delle bùccine per la marina si fa
più frequente e più aspro. S’ode il grido dei naviganti.

VOCI DI MARINAI
Aiuta aiuta!
Aiuta aiuta!

VOCI D’UOMINI D’ARME
Este Este! Diamante, Diamante!

Un clamore d’assalto e di battaglia
va crescendo su pel laureto,
e già supera i cantici sacri.
Un sùbito sgomento invade le donne e la chiericia.
Uomini giungono su per la selva,
ansanti, e annunziano il pericolo.

VOCI SPARSE
– I corsali, i corsali
di Schiavonia!
di Schiavonia! – Serrate!
la chiostra!
la chiostra! – Gli Schiavoni! Gli Schiavoni!
– Abbarrate il Tesoro!
– Este Este! Diamante, Diamante!

Sopraggiunge Aldobrandino dei Rangoni,
con la spada in pugno.
Parisina lo scorge e chiama,
accorrendo verso lui.

PARISINA
Aldobrandino! Aldobrandino! Dove
lasciaste Ugo?

ALDOBRANDINO
lasciaste Ugo? Madonna, non temete,
non temete. Ei conduce
le scorte. È bene armato. Gli Schiavoni
fanno la scorreria,
per rapinare la Vergine nera.
Ei trascinano l’Idolo di bronzo
tratto dal mare.

PARISINA
tratto dal mare. Quale idolo? Quale
idolo?

ALDOBRANDINO
idolo? Non temete,
Madonna.

PARISINA
Madonna. Ugo dov’è?

ALDOBRANDINO
Alla battaglia, alla battaglia. Ei vince.
Addio, Madonna.

Dispare per la selva contrastata.

IL GRIDO DEI COMBATTENTI
Este Este! Diamante, Diamante!

Sul Santuario, sugli Ospizi, sul laureto,
sul mare il vespro di maggio accende
ed eccita i suoi fuochi.
Parisina, abbracciata alle sbarre dei cancelli,
è perduta con gli occhi e con l’ansia nell’Imagine
di cedro che scintilla sotto le lampade numerose.
Le più ardite fra le sue donne si sporgono
dal crine dell’altura alle vedette.

LE FANTI
– Spingono il carro su per l’erta, il carro
dipinto.
dipinto. – È il carro dei Piceni.
dipinto. – È il carro dei Piceni. – L’Idolo
traballa.
traballa. – Quante braccia! Quante braccia
contro le ruote!
contro le ruote! – Quante braccia rosse!
Il sangue cola. Il carro è rosso.
Il sangue cola. Il carro è rosso. – Quante
braccia! A colpi di spada,
a colpi d’azza le troncano, e pare
che rinascano sempre.
– I pugni mozzi restano abbrancati
ai razzi delle ruote.
ai razzi delle ruote.- Ecco, ora l’Idolo
s’abbatte!
s’abbatte!- È tutto verde,
di smalto gli occhi.
– Gli occhi di smalto,
e d’ogni parte sembrano guatare.
– È la Dimonia che dimora ai monti
della Sibilla
col cavalier dannato.
– È quella che dimora in fondo al mare
e prendere si lascia dalle reti
dei pescatori.
dei pescatori. – È póntano,
e spingono!
e spingono! – Son vénti braccia ancóra.
Ecco, ecco, fanno sforzo.
Ecco, ecco, fanno sforzo.- Mozza! Mozza!
– Taglia! Taglia!
– Taglia! Taglia! – Messer Ugo! Messer
Ugo!
Ugo! – Son sette,
son sette braccia rosse
che póntano; son cinque
uomini e sette braccia.
uomini e sette braccia. – Tronca! Tronca!
– Non è carne ma ferro.
– Non è carne ma ferro. – E monta, e monta!
– E l’Idolo sta ritto!
– E l’Idolo sta ritto! – Taglia! Taglia!
– Non son che tre. Terribili,
tutti sangue.
tutti sangue. – Terribili.
Póntano i moncherini.
Póntano l’ossa.
– Este Este!
– Este Este! – Messer Ugo!
Messer Ugo!
Messer Ugo! – Non han più occhi sotto
la fronte. Con i denti
guatano! Hanno lo smalto
bianco della Dimonia
occhiuta nelle bocche disperate.
– Son morti. Morti sono,
e sforzano.
e sforzano. – Son morti, e non stramazzano.
– Eccoli in vetta! Eccoli in vetta!
– Eccoli in vetta! Eccoli in vetta! – È l’Idolo
che cammina coi piedi suoi di bronzo
sopra il macello!
sopra il macello! – Fuggi! Fuggi!
sopra il macello! – Fuggi! Fuggi! – Scampa!

Le donne fuggono sbigottite.
Il plaustro è giunto quasi in vetta,
e s’arresta con le due ruote sul corpo
traverso dell’ultimo caduto.
Su i lauri curvati e schiantati l’Idolo s’alza immobile
contro i roghi consunti dell’orizzonte marino,
in un cerchio irto di spuntoni, di mannaresi e di corsesche.

LE VOCI DEI VITTORIOSI
Este Este! Diamante, Diamante!

Appare Ugo d’Este, con la faccia ardente,
con la spada in pugno levata. Come Parisina lo scorge,
fa l’atto di balzare verso di lui; ma si rattiene.

UGO D’ESTE
Vittoria! Sia laudata
la Regina del Cielo!
Abbiamo vinto.

PARISINA
Sano e salvo? Ferito
non siete? Molto sangue
è su voi.

UGO D’ESTE
è su voi. No. Ferita
non sento. È il sangue dei corsali.

PARISINA
non sento. È il sangue dei corsali. Grazie
rendiamo a Dio Signore,
grazie alla Madre dell’Iddio Signore.

Ella prende per mano il suo figliastro
e lo conduce ai cancelli del Santuario.
La chiericia intona l’Antifona.

UGO D’ESTE
A te, Torre d’avorio,
consacro la mia spada sanguinosa.

Aprono gli acoliti i cancelli perché il difensore
e la donatrice possano prostrarsi alla soglia della Santa Casa.
L’uno e l’altra si tengono tuttavia per mano;
e in tale atto s’inginocchiano,
reggendo egli nella destra, con la punta in alto, la spada votiva.

ANTIPHONA
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo, et spes nostra, salve.
Ad te clamamus….

Il sacerdote fa il segno di benedizione
su i prostrati, e riceve l’offerta del ferro.
Ugo e Parisina si levano, ambedue impalliditi.
Ella abbraccia il suo figliastro e lo bacia su la gota.
Nell’abbraccio, la tonacella bianca si macchia
di sangue contro il corsaletto; ma niuno dei due se n’avvede.
Tenendosi per mano si volgono, ripassano i cancelli,
camminano come in sogno verso il padiglione.

LA VERDE
Dama, chi v’ha piagata?
Una macchia di sangue
avete in mezzo al petto.
O Vergine Maria!

Entrambi sussultano come in súbito risveglio.

PARISINA
Verde, t’abbagli?

LA VERDE
Verdi, t’abbagli? Avete in mezzo al petto
una macchia vermiglia.
Ferita siete, Dama? O Gesù Cristo!

Parisina, smarrita, piega gli occhi a guardare,
e vi cerca la piaga nel petto con le mani.
Poi tenta di sorridere.

PARISINA
Ugo, m’avete insanguinata.

LA VERDE
Ugo, m’avete insanguinata. Oimè!
Messer Ugo, vi gronda
sangue dal collo
e ne’ capegli vi s’aggruma.

PARISINA
e ne’ capegli vi s’aggruma. Ah, dove?
dove?
Ella gli solleva i capelli di su la nuca.
dove? È vero. Tagliato
siete.

UGO D’ESTE
siete. Non duole.

LA VERDE
siete. Non duole. È come
intacco di mannaia
quando la man del giustiziero trema
e il colpo falla.

PARISINA
e il colpo falla. Dio ci aiuti! Esperta
sei del ceppo? Vogliate qui sedere
che medicarvi io possa.
O Verde, porta l’acqua e i pannilini,
e una pezzuola d’unguento. Vedrete
che bene medicarvi
saprò, così che quando
tornato siate
al vostro padre
non pur si scorga
la cicatrice.
In mal luogo vi colse
il colpo, in mortal luogo; e fu ventura
grande che via passasse….
Or che saria di Parisina?

UGO D’ESTE
Or che saria di Parisina? Or voi
composto m’avereste nella bara,
poi, legata la cassa in sul giumento,
ricondotto laggiù per la via lunga,
accompagnato fra le dolci cose
di primavera;
e io, per mezo all’assi,
per mezzo alla mia coltre, ahimè, non più
non più v’avrei veduta con questi occhi!
Sol tal pensiero
m’era nel cuore mentre combattevo,
e tanto erami forte che sol esso,
sol esso e non il ferro,
parava alla mia vita
ogni colpo mortale. Diamante,
gridavano le scorte, Diamante!
E tutta in un pensiero
adamantina era la vita mia.

PARISINA
Ah, signore mio figlio, già m’avete
voi maculata,
m’avete insanguinata
a mezzo il petto. Ora perché volete
ardermi?

UGO D’ESTE
ardermi? Figlio
mi dite! Figlio della Primavera
giovinetta or son io dunque a prodigio?

PARISINA
Non potrò più toccarvi, né sanarvi,
ahimè, figlio ferito!

UGO D’ESTE
Chi sanerà la fiamma?
E che giova stagnare alcuna goccia,
se il cuor lascia fuggirsi
tanto flutto che il mondo n’è vermiglio?

La Verde riappare coi pannilini e col bacino.

LA VERDE
Ecco, Dama.

Ella depone il tutto; poi esita qualche istante,
e si ritrae lievemente senza rivolgere le spalle,
camminando a ritroso,
con gli occhi fissi sopra i due perduti.

PARISINA
Ecco, Dama. Vedete.
Ecco l’acqua, ecco i lini, et ecco il
balsamo.
Ma non più m’ardisco…. Se pietà
ho di voi, non avrete
pietà di me che tutta
smarrita sono dalla grande angoscia?
Inginocchiàti su la soglia santa
fummo. Io donai
quanto più caro m’era. Consacraste
voi la spada ancor calda
d’eccidio. Nella grazia
del vóto or siamo entrambi,
restituiti entrambi
alla grazia divina.

La moglie di Nicolò è tutta tremante.
Folle di desiderio è il figlio di Stella,
e ancóra inebriato di battaglia.

UGO D’ESTE
alla grazia divina. Ho combattuto,
ho combattuto pel mio vóto, senza
cedere, nel pericolo più folto.
Da solo ho combattuto come cento;
e la mia spada aveva cento punte
e cento tagli alla carneficina….

Il volto della Malatesta subitamente s’infiamma,
quasi che le si apprenda l’ebbrezza sanguinaria.

PARISINA
Così, così combattere vorrei!

UGO D’ESTE
L’arme e la gioia erano una potenza
sola. Alla prova santa, la mia facia,
i miei capelli, le mie mani, tutte
le mie vene erano una sola vampa,
come a gioco d’amore….

PARISINA
Ah, veduto io t’avessi!

UGO D’ESTE
Ah, veduto io t’avessi! E la battaglia
mi soffiava su gli occhi come il vento
di Schiavonia;
e le grida e il clamore
parevano rilucere, e la luce
di tutto il cielo
parea gridare come il combattente….

PARISINA
Gridavi tu? Gridavi
ad ogni colpo? Udito
io t’avessi!

UGO D’ESTE
io t’avessi! Io non so se la mia gola
facesse grido né qual grido; ma
nel rombo de’ miei polsi
udivo il cor gridare un nome, un nome,
un aguzzato nome penetrabile
come stocco….

PARISINA
come stocco…. Qual nome?

UGO D’ESTE
come stocco…. Qual nome? Parisina!
Parisina!

PARISINA
Parisina! Così gridavi?

UGO D’ESTE
Parisina! Così gridavi? E il nome
e il cuore e il braccio e l’arme
erano una virtù sola, veloce
come la forza tacita del sogno;
e gli uomini cadevano
intorno a me guardandomi
negli occhi, come in sogno
quando uno solo è come moltitudine
e un viso è come mille
e il cor su è pieno di memoria
vertiginosa.
Ciascun percosso
parea gridarmi:
Per chi m’uccidi?
Ah, ben io so. Un riso
arido mi saliva dai precordii….

PARISINA
Ch’io li veda, li veda!
Ch’io mi chini a spiarli
negli occhi aperti, i tuoi uccisi, ch’io
ne scopra i tagli,
ch’io sappia come tu ferisci. Andiamo!
Di che è questo sangue che me segna?
Stanno in mucchio tra i lauri,
stanno riversi per la china, rotti
sotto il carro. Taluno forse vive,
non è spirato ancòra; e con quegli occhi
che ti guardarono
mi guarderà.

UGO D’ESTE
mi guarderà. Io solo
ti guarderò, io solo.
Ah fosse – io mi sognava nel mio cor
folle mentre la forza
mi cresceva alla strage –
fosse a vespro tagliata
ogni vita così
come il campo del grano
alla fine dell’opra
raso è dal mietitore;
e noi due, soli insieme
noi due, lasciate fossimo di qua
dalla morte, noi due
in un nodo, così come ti serro,
Parisina….

Perdutamente egli ghermisce la donna,
che si divincola atterrita e si dislaccia.

PARISINA
Parisina…. Ah follia, perdizione,
morte nostra! Il Nemico è sopra noi,
che tra’ suoi beveraggi
ha scelto il più crudele,
ha scelto il sangue per inebriarci!
Non so che fumo atroce
salito è dal profondo,
non so che mala ebrezza…. Mi risveglio,
ecco, mi scrollo.
Io ti prego, t’imploro!
Non far peccato,
non far peccato orrendo!
Inginocchiàti su la soglia santa
fummo. Sciogliemmo il vóto.
Non esser cieco,
non m’accecare!
Vinci il Nemico,
che sta nell’ombra,
che nell’ombra ci agguata.
La notte viene,
la notte viene.
Ancora nella sera che si costella,
s’ode lungo la marina il suono roco delle bùccine.
L’Idolo è alzato nel carro, tra i lauri,
sul crine del poggio,
contro l’ultima banda di rossore crepuscolare.
Giunge dagli Ospizii l’infinita litania.
Accendete le fiaccole! Recate
tutti i doppieri!

Com’ella fa l’atto di volgersi verso le cortine
che chiudono il fondo del padiglione,
a chiamare la sua gente, il forsennato la trattiene a forza
e con la mano osa chiuderle la bocca.

UGO D’ESTE
tutti i doppieri! Taci! Taci! L’ultima
luce recato ha l’ultima
ombra per me su la terra, e la notte
senz’alba. Taci! Se taluno reca
la fiaccola, io l’atterro
e nel viso gli spengo
la fiamma….

PARISINA
la fiamma…. Ah chi ti toglie
il senno? Chi ti rende sì feroce?
Gli uccisi ti guardavano negli occhi….

UGO D’ESTE
Ero con loro su l’abisso buio
senza precipitare,
per voler prima sciogliere il mio vóto.

PARISINA
Il tuo vóto! Oh parola scellerata!
Già nel viso l’ardore dell’inferno
hai.

UGO D’ESTE
hai. L’ardor dell’Inferno mi sarà,
dopo, più dolce, sette volte più
dolce che se dirmissi
nelle tue braccia avvinto
e ti sentissi abbandonar l’un braccio
nel lieve sonno.

La donna fa l’atto di lanciarsi fuori del padiglione.
Rattenuta, ritrascinata, rovescia il capo indietro
a scorgere di là dai cancelli chiusi la Vergine nera.

PARISINA
Mercé, Maria! Mercé, Vergine santa!
Se tutto ti donnai,
se tutta mi t’offersi,
salvami!

UGO D’ESTE
salvami! Io l’ho servita per l’amore,
per l’amore.

PARISINA
per l’amore. Maria,
o Regina dei Martiri, Maria,
schiantami il cuore, fammi cader morta,
salvami dal peccato orrendo!

UGO D’ESTE
salvami dal peccato orrendo! Segno
non dà. Io l’ho servita per l’amore,
per l’amore.

PARISINA
per l’amore. Ugo, ascolta,
ascolta. Dammi tregua.
Il Nemico ci tiene,
il Maligno è su noi.
Concedimi la prova
della preghiera.
Ascolta. Aspetta. Dammi tregua. Vieni.
M’inginocchio. Inginòcchiati. Preghiamo.

Ella si getta ginocchioni, traendo per le mani il giovine,
che s’inginocchia di contro a lei.
Sono senza colore entrambi, anelanti, a viso a viso,
con le pupille nelle pupille, col respiro nel respiro,
in un attimo soprano d’attesa, di terrore e di passione.
All’improvviso, quasi che l’attimo scocchi,
con una veemenza unanime,
le due bocche aride si congiungono
come per beversi o per divorarsi.
Così congiunti, i due perduti
a poco a poco si piegano sul fianco;
sicchè l’una e l’altro toccano insieme con la gota
il tappeto disteso su la nuda terra.
L’uno accanto all’altra, senza disgiungere le labbra e le braccia,
s’allungano nel letto dell’ombra per giacersi e morire.

ATTO TERZO

La Camera “A Ursi” in Belfiore

La camera è profonda e ricca.
Il gran letto è involto nelle cortine.
I doppieri sono spenti.
Sola arde una lanterna posta sul pavimento,
di contro alla porta. Parisina è a giacere in un tappeto,
presso la lanterna. Poggiati i gomiti,
stretto fra le pugna chiuse il capo,
inganna l’attesa leggendo il Romanzo di Tristano.
Il lume rischiara la faccia intenta e il libro aperto
sul corpo dell’arpa come su leggio.
Il rimantente è nell’ombra.
Sopra una scranna la Verde sembra sonnecchiare.
La finestra è aperta alla notte bella
e all’orezzo dei verzieri in fiore.
Credendo udire il passo furtivo presso la soglia
che il lume basso segna d’una riga indicatrice,
Parisina sobbalza, si leva su i ginocchi,
e ascolta palpitante.
Giunge sul vento notturno alcun lembo
d’un coro noto ma remoto:

“Che foco è questo ch’arde e non
consuma?
Che piaga è questa che sangue non
getta?”

PARISINA
Dormi? Verde, tu dormi?
Ella si leva in piedi, va all’uscio, lo apre;
guarda nell’andito buio.
Si ritrae rabbrividendo;
e si volge, con la faccia sbiancata dal terrore.
L’uscio rimane socchiuso. La lanterna e il libro
rischiarato sul corpo dell’arpa rimangono a terra.
Dormi?

LA VERDE
Dormi? No, Dama bella.

Ella si scuote e s’alza,
mentre l’aspettante le si accosta, sconvolta.

PARISINA
Verde!

LA VERDE
Verde! Qual mai paura entrata v’è
addosso, Dama?

PARISINA
addosso, Dama? Ancóra là, nel buio,
nell’andito, davanti
la porta, traveduta
l’ho.

LA VERDE
l’ho. La fantasima?

PARISINA
Ed ei tarda. Perché tarda stanotte?
L’andito è nero
per ove ei viene
con le mani tastando
come il cieco mendico.
Ma posta ho in terra
la lampada perché sotto la porta
segni il segnale di luce. Or qualcuno
è tra la lampada e la notte. Ancóra
non s’ode il terzo grido delle scolte,
e tu dormi! Se taci, t’addormenti,
meschina; né pur sai dove noi siamo,
né pur sai chi s’attenda.
Ti prenderò per i capegli, il capo
ti scoterò, come allora; perché
non pur sai che stanotte
fa l’anno, quando
ti volgesti sfacciata
a dire il bacio
d’Amore e di Vergognia.

Ella erra smaniosa intorno al lume basso e al libro aperto.

LA VERDE
d’Amore e di Vergognia. Dama, Dama,
voi non mi date mai posa, né dì
né notte. Or sempre nascono rampogna
e rimbrotti, doglienza e crucci. Almanco
io bene vi guardai, bene vi guardo,
che passo l’ore buie
contro l’uscio inchiodata
come serrame;
e la vita vi dono,
ché sento omai
questo mio capo debole in sul gambo
qual frutto mézzo che pur dee cadere.

Rapida la tormentata le si accosta, roca le parla.

PARISINA
Tu tremi il tradimento e la mannaia,
meschina? Hai tu sospetto
che taluno ne spii,
taluno a cui di me
incresca?

LA VERDE
incresca? Forse, Dama.

PARISINA
Chi? La Chiara de Mantova?

LA VERDE
Chi? La Chiara de Mantova? Sicura
di lei non sono; ma v’è altri….

PARISINA
di lei non sono; ma v’è altri…. Chi?
Zoese?

LA VERDE
Zoese? Ei va braccando,
mi sembra, e mal sorride….

PARISINA
mi sembra, e mal sorride…. È certo, è certo!
Apparita non m’è senza cagione.
Pallida il viso
come la prima cenere che vela
la brace, in un camaglio
a liste brune e d’oro,
mi stava al capezzale.
Col peso della carne del mio cuore
pesava il mio peccato. E disse: “Io so.
Ma che paventi? Il ferro
non divide la fiamma,
non divide la fiamma che s’aderse.”

LA VERDE
Di chi parlate voi?

PARISINA
Di chi parlate voi? Ma guarda, guarda,
se l’animo ti basta. Ora non è
alzata tra la lampada e la notte?

Ella s’arresta con un gran fremito,
come davanti a un pensiero vivente.

LA VERDE
Dama, Dama, sognate voi movendo
e favellando, come
fa l’Isabetta? O la febbre maggese
di sùbito vi piglia?

PARISINA
di sùbito vi piglia? Questa pena
di sudore Ei sostenne,
perché da noi
si spiccasse la beffre del peccato….
Dici che sogno? Non so quando io chiusi
gli occhi, no so da qual mai lungo
sonno
io mi svegli; non so,
non so di quale vita
io viva, in verità. Tutto ritorna
dal profondo. Commessa
fu la mia colpa,
patito il mio dolore,
sofferto il mio spavento;
sospesa fu la mia sciagura, inflitta
la mia morte. Non sogno,
o meschina, non sogno: mi rimemoro.
Non vivo: di mia vita mi sovviene,
mi sovviene di me come discesa
nel mondo io sia pe’ rami
d’un nero sangue.
A Rimino sposata fui, menata
a Ravenna il dì due d’aprile. Intendi?
Feci a ritroso la sua via.
Rifeci
la via mala. Il suo pianto fu ripianto
entro me, senza lacrime….

LA VERDE
entro me, senza lacrime…. Chi, Dama,
chi vi tormenta?

PARISINA
chi vi tormenta? Francesca! Francesca!
O ell’è tra la lampada e la notte.
E mi guarda; e la guardo
come se me medesma
io mirassi in funesto
specchio; ché, com’io m’ebbi a
mezzo il petto
quella macchia vermiglia,
a mezzo il petto una profonda polla
di sangue ell’ha; che fumiga e del tristo
vapore m’empie il mio respiro. Et anche
il mio peccato
scritto è in quel libro,
come il suo nel libro
ch’ella lesse. Ma ella s’interruppe,
e convien ch’io lo legga sino in fondo….
Ascolta l’usignuolo!

D’improvviso, per l’aperta finestra entrano
le prime note della melodia notturna.
Sospesa nell’ansia, l’amante ascolta.
Trasognata, con le parole d’Isotta
accompagna sommessamente
la passione del cantore solitario.

E disse in cuore Isotta:
“Or d’onde sale tanta melodia?”
E sùbito s’addiede:
” È Tristano! È Tristano,
qual già nella foresta
ei mi fingea le voci degli uccelli
per me rapire in gioia. Or parte,
or parte!
Si lagna come l’usignuolo quando
commiato prende ché la state muore.
Mio dolce amico, più non t’udirò!”
E in grande ardore il canto più saliva.
“Ah, che vuoi tu? ch’io venga? No. Sei
folle.
Ricòrdati del giuro. Taci, taci,
ché la morte ci agguata….
E che mi cal di morte? Tu mi chiami.
Tu mi vuoi, tu mi vuoi. Ecco, ora
vengo,
or teco vengo a morte, a eternità!”

Per l’uscio socchiuso entra Ugo anelante.
Senza parola, egli si precipita e la stringe
con la violenza di chi vuol’ soffocare e abbattere.
Le quattro braccia si annodano intorno ai corpi
con una fermezza che sembra infrangibile.

PARISINA
Ah, serra ancóra, serra
così forte che i cuori
si frangano e che l’anime si fuggano!
Rotta dall’angoscia d’amore, egli rallenta la stretta.
Forza non hai. Son viva!

La Verde esce pianamente
e chiude l’uscio dietro sé.

UGO
Forza non hai. I am alive! Parisina!
Parisina!

PARISINA
Parisina! E pur, mentre
tardavi, l’anima
furente di fuggirsi
reggevo con le mani disperate,
come il valletto chino
rattiene il veltro a piene braccia. O amico
mio bello, e mi parea
che, se lasciata io l’avessi, ripresa
io non l’avrei più mai.

UGO
Né io l’aveva in me, l’anima mia;
né il cuore aveva in petto,
né la pietà. M’ascolti? Combattuto
io ho combattimento più tremendo
che quello del mio vóto,
intorno al carro atroce, quand’io t’ebbi.

PARISINA
Hai combattuto?
Ansiosa ella gli palpa le braccia,
il petto, le ciocche dei capelli su gli òmeri.
Guarda se le dita le si tingano.
Hai combattuto? Oh Dio!
Sei tutto molle. Ancóra sangue?

UGO
Sei tutto molle. Ancóra sangue? Lacrime.

PARISINA
Lacrime! Hai pianto?

UGO
Non io, non io.

PARISINA
Non io, non io. Ma quale creature
ha pianto sopra te così gran pianto?
Chi, dimmi, aver poteva tanto lacrime?

UGO
La madre mia.

PARISINA
La madre mia. Stella dell’Assassino!

Come colpita a dentro, ella indietreggia e vacilla.

UGO
La mia madre.

Si ode il grido delle Scolte: “All’erta!”

PARISINA
La mia madre. Oh perdonami!
Cruccio non è. Dell’insensato oltraggio
non ti sovvenga più; sol ti sovvenga
de’ miei singhiozzi
e del silenzio che si fece intorno
come quando dall’odio in su la nave
votato fu per due
la tazza dell’amore e della morte.
Ma parla, dimmi. Dove ti cercò
ella? Tornò dal bando?
E chi te la condusse?

UGO
Non so, non so.
Balzata è dalla notte
con uno schianto di dolore, sola,
indomita…. Ah, non sai.
Volgevo il capo
per non guardare la sua faccia: ché,
s’io la guardava,
non v’era in me più forza né coraggio
né soffio. Avviluppato in una nube
d’angoscia, profondato
ero in un’onda amara
e calda, con l’orrore
della sorte premuto
su tutto me. Parole
udivo escite
da non so qual potenza, nella notte
senza vie. La salvezza e il perdimento
eran senz’occhi entrambi.
E tutto inevitabile
era. E non combattevo
se non per te
anche una volta, se non pel mio vóto,
non più nel sangue
ma nelle lacrime.

PARISINA
La notte ha la sua via,
ha la sua via la notte.
Guarda, per il tremore
spaventoso degli astri, la via bianca,
la via di latte:
Galàssia! Prendimi
su la tua spalla
come un fascio di foglie
legato come un vimine,
e portami lontano.
Portami alla foresta,
rapiscimi lontano,
come Isotta la Bionda,
tu con l’arco e la spada,
io con l’amor mio solo.
Ma forse nella landa d’Oblianza
ritroverò la mia
arpa sospesa al ramo
dell’avellano involto
dal caprifoglio in fiore;
e, come l’usignuolo
canta, io ti canterò.
“Amico mio bello,
così di noi è:
né tu senza me,
né io senza te.”

UGO
Ah come in te
dolce cosa a toccare
e dolce a respirare
è la vita!

Già colmo della voluttà primaverile,
egli cingendola col braccio la trae
lentamente verso il gran letto.

PARISINA
è la vita! Vuoi vivere!
Come un fastello d’erbe
su la tua spalla prendimi.
Ti sarò lieve.
Prendimi, portami.
Ti sarò lieve….

Son già presso il letto; e la voce dell’amata illanguidisce,
nell’alito dell’amante che verso lei si piega.
D’improvviso la Verde spalanca la porta
dando ad alta voce l’annunzio, quasi fosse in cerimonia.

LA VERDE
Messere Nicolò venire degna
a visitare in camera Madonna.

Ella s’addossa allo stipite restando inchinata,
più bianca della sua gorgeretta.
Con un atto pronto e forte Parisina spinge Ugo
tra le cortine e lo nasconde;
poi si volge, fa qualche passo verso il sopravvegnente,
rafferma l’animo. Il chiarore delle torce sbattendo sul muro
dell’andito precede l’uomo.
Egli appare su la soglia bieco,
tenendo in pugno un verduco acutissimo.
I famigli, con cappucci calati su gli occhi,
restano dietro di lui sollevando le torce.

PARISINA
Benvenuto, signore.
Molto a notte, e con tante
fiaccole, e armato, la mercé di Dio!

NICOLÒ D’ESTE
Perdono chieggio, donna. Io non credea
trovarvi un pezzo tra notte a vegliare.

PARISINA
Io leggeva il romanzo di Tristano,
e l’ore mi s’involano.

NICOLÒ D’ESTE
e l’ore mi s’involano. Per certo,
donna, d’entrar non mi sarei ardito
se troppo frettolosa questa vostra
servente non m’avesse prevenuto,
come lesta ch’ell’è,
e bene istrutta.
Io passavo per l’andito, co’ miei
famigli. Io cerco
il leopardo
che mi donò l’Imperadore greco.
Fuggito s’è di gabbia,
né so dove s’acquatti.
Voi l’avevate caro
pel suo pelame costellato. Et egli
v’aveva in grazia. Forse
rifugiato egli s’è
presso voi, senza mordere?

Egli s’avanza nella camera guardingo.
La donna è intrepida, quasi irridende.

PARISINA
Strano parlate, mio signore. Ma
altra fiera non è qui, se non sono
io quella.

NICOLÒ D’ESTE
io quella. Maculata voi non siete,
donna. Neuna macula
è in voi; e in lui son cento.
Egli guata per ogni dove a scoprire l’indizio.
Fate lume! L’odor selvaggio fiuto.
I’ sono un bracco pratico.

PARISINA
Concio siete, messere, o divenuto
fuori di senno?

Egli cammina implacabile verso il letto.
Da presso lo segue la donna e lo vigila.

NICOLÒ D’ESTE
fuori di senno? E pure
ben vi piacquero un tempo le mie cacce
notturne con le fiaccole e le nacchere.
Ma non v’attendavate a questa. Fate
lume! Ecco. Bene, bene.
Ch’io recuperi almen la gaia pelle
del leopardo
che mi donò
quel buon Pagliàloco.
Giunto dinanzi al letto, così dicendo
e un poco soffiando, si curva su le gambe ercoline.
Allungando il braccio vibra di sotto più colpi per assaggio.
A vòto, a vòto!

La donna è da presso immobile,
tesa come balestra, sospesa all’attimo dello scocco.
L’uomo, come avvertito da alcun fremito della vita nascosta
tra le pieghe della cortina,
figge al giusto luogo lo sguardo sfavillante.
Un poco si ritrae per misurare il colpo.
Come già piega il gomito,
l’adultera si getta innanzi perdutamente gridando.

PARISINA
No! No! È Ugo, Ugo,
il vostro figlio!

Con un gesto rapido ella medesima lo discopre.
Ugo resta immobile, senza parola, nel pallore
e nel rigore del sasso.
Il padre lascia cadere a terra l’arme e barcolla alquanto,
come s’egli medesimo avesse ricevuto il colpo sviato.
Le fiaccole vacillano a sommo delle braccia
che lo sgomento dirompe.

NICOLÒ D’ESTE
Cristo Signore, perché tu mi fulmini?
Se raccattai la terra dal Calvario
con le mie pugna,
se il Sepolcro toccai, Cristo Signore,
tu fa ch’io non mi perda,
ch’io non raccatti il ferro, che le mani
mie stesse io non insanguini
nel sangue mio!
O Zoese, Zoese, e tu non hai
se non un capo solo
al ceppo, ch’io tel prenda!
Tu lo sapevi,
tu lo sapevi, e non me l’hai svelato.
Cacciato m’hai
a patir questo istante
che contato mi sia
per mill’anni di rosso Inferno. A viso
a viso mi volesti
col mio figlio che voltola nel mio
lenzuolo la sua foia. Fate lume!
Fate lume! Squassate
le fiaccole, che rendano più fiamma!
Portate ancóra torce,
che la camera piena di splendore
sia, dov’è l’onta d’Este,
e ch’io lo veda
ch’io ben lo veda,
fatto di pietra contro la colonna
del mio letto infamato,
quel capo che ogni giorno inghirlandai,
quel viso ch’io mi tenni in mezzo al
cuore!

Quasi dementato dallo spasimo,
egli afferra la lampada che tuttavia arde sul pavimento,
presso il libro aperto; e,
prendendo il figlio a’ capelli e tenendolo fermo,
con quella gli rischiara il viso mortale e lo scruta,
più inumano verso sé che verso lui.
Ma Parisina toglie un drappo e arditamente
con quello acceca la lampada avviluppandola,
sì che cessa il supplizio.

PARISINA
Hai tu veduto a dentro?
sin nel profondo?
E che dirai? e che dirai di questo
dolce fanciullo?
Or guarda me, che sola son la fiera
a te dinanzi,
vedi, più maculata che la pelle
del leopardo,
corrotta sin nell’ossa
dal mio retaggio ontoso,
nata d’un sangue
di rubatori traditori e drude,
come gridò la madre del tuo figlio,
Stella dell’Assassino;
e ben l’udì questo fanciullo, e bene
da lui, da lui
quante volte tu stesso
udisti contra me
la parola dell’odio e del dispregio!
Non ti sovviene più
di che odio selvaggio ei m’odiasse?
Vendicata io mi sono,
come una Malatesta
vendicarsi usa,
in frode e in tradimento.
Io lo riarsi,
l’avviluppai,
di filtri infami
l’abberverai,
lo dissennai
per ogni guisa,
l’avvelenai
d’ogni veleno,
questo fanciullo.
Io, io lo persi,
io sola. Guardami.
Ho il viso nudo,
l’anima tesa.
Nulla in me trema.
L’onta è la luce
del mio peccato.

Rompe Ugo col grido la rigidità dell’orrore;
e la delirante vita scoppia come la sorgente della roccia.

UGO
Ah com’è bella! La vedete voi?
la vedete? Le vostre
torce non fanno luce, né avete
pupille per la sua bellezza. Sola
ella fa luce. La vedete voi?
Io, per l’Iddio possente
che nominar non dubito con questa
bocca piena d’amore e d’agonia,
giuro ch’ella ha mentito;
e lo splendore della sua menzogna
m’è testimonianza. Non riarso,
e non avviluppato,
né beverato fui
di filtri o di veleni,
ma dall’anima mia
inebriato d’un divino sogno
che noi sognammo
in doglia e in gioia,
che sogneremo
fino al trapasso,
finché tutto il mio sangue
non balzi incontro al suo,
come segnale e pegno di vittoria.

Nicolò è rimasto come nel fascino
d’una cosa mostruosa e inesplicabile.
Ora la terribilità del punitore non arde
se non nelle ciglia, ma la voce è pacata e grave.

NICOLÒ D’ESTE
Abbian l’istesso ceppo
sotto l’istessa scure
i due capi, e i due sangui
faccian l’istessa pozza.

I morituri cadono in ginocchio, l’uno di contro all’altra,
come stettero sotto il padiglione, nel luogo santo,
innanzi il bacio del perdimento.
Si affisano, l’una nell’altro assorti; e il mistero le cerchia.

NICOLÒ D’ESTE
Jacomo, prendili!

Si nomano essi con tal voce trasumanata
che tutta la forza ignata, per alcuni attimi,
resta sospesa intorno.

PARISINA
Jacomo, prendili! Ugo!

UGO
Jacomo, prendili! Ugo! Parisina!

ATTO QUARTO

La Torre del Leone

Appariscono le Segrete in fondo di torre.
Un archivolto sopra due pilastri tozzi,
aperto nella muraglia maestra,
lascia scorgere il luogo della giustizia a traverso
un saldo e rudo cancello di ferro.
Un’apertura verticale, lunga e stretta come una balestriera,
è l’unico occhio del carcere; ma non vi passa alcun barlume,
essendo ancor notte, poco innanzi mattutino.
Quivi è il ceppo apprestato, e il giustiziere
co’ suoi manigoldi e con l’altra sua gente;
e i torchi v’ardono. Alcuno non è di qua dalla muraglia,
di qua dall’arco inferriato.
Chiuso è l’usciuolo che dal lato manco
dà accesso a questa parte.
Ugo e Parisina sono di là dal cancello,
in piedi entrambi, allacciati così che sembrano indissolubili.
La voce di lei, nella gola che sta per esser mozza,
è fresca come il giubilo dell’allodola.

PARISINA
Non odo più,
non odo più la stilla
del tempo che cadere
udivo nelle notti
senza riposo.
L’alba indovino.

UGO
Né odo il cuore;
ché non più sire
egli è delle mie vene.
Per la tua vita
accôrre, la mia vita
non ha confino.

PARISINA
Udito hai tu,
udito hai tu sul muro
della torre crosciare
la piova? Tutto è fresco,
tutto è mondato.
Or mi ricreo
come il fil d’erba.
E so che nel ciel ride
già la stella diana.

UGO
Passato è un tempo,
passato è un tempo
ch’io non posso più dire;
e quel che innanzi avvenne
e quel che dopo ancóra,
io nol viddi, nol seppi.
Forse or ti nasco;
e la morte, ch’è sopra,
par sì lontana.

PARISINA
Ah tu non sai,
non sai qual sia
nella tua bocca
la voce nova!
La volta cupa
ove risuona
sembra il segreto
antro d’un fonte.

UGO
Vedi che occhi
s’apron ne’ miei?
In me tu sali,
cresci qual mare
senza amarezza.
Il flutto è in sommo.
Non ho il tuo sguardo
sotto la fronte?

PARISINA
Tutte le lacrime,
ah tutte le mie lacrime
son divenute un sorso
d’acqua sorgente!
L’ho nella bianca gola.
Ho la più fresca
acqua del chiaro mondo
nella mia gola
che sta per sanguinare.

UGO
O mio fascio di foglie,
o mio fastello d’erbe,
dove ti porterò?
È più dolcezza
nella tua tempia,
in tra ‘l ciglio e i capelli,
che in qualunque contrada
del chiaro mondo. Or dove
andrem noi dimorare?

PARISINA
Se tanto ardemmo,
se tanto ci struggemmo,
se fummo in tanto foco,
novel tempo d’ardore
pur nel mondo di giù
andrem noi ritrovare?

UGO
Non nel mondo di giù,
non nel mondo che rugge.
Detto l’hai. Tutto è fresco,
tutto è mondato.
O mio fastello d’erbe,
dove t’ho da posare?

PARISINA
Posami accanto al ceppo.
C’inginocchiammo
due volte. Anco due volte
bisogna, o bello
e dolce amico,
bisogna a noi due volte
i ginocchi piegare.
La prima nel peccato,
la seconda nell’onta,
la terza nella morte,
la quarta nell’eternità….

Per s’usciuolo ferrato irrompe
con un grido Stella dell’Assassino;
e la segue la sua donzella
che ammantata resta contro lo stipite.

PARISINA
la quarta nell’eternità….Fa cuore.
Quella che grida è la tua madre.

STELLA DELL’ASSASSINO
Quella che grida è la tua madre. Figlio!
O figlio, dove sei?
dove sei? Non ti scorgo,
non ti trovo. Rispondi!
Rispondi! Cieca sono
di pianto. Dove sei? Tardi son giunta?
T’hanno ucciso? Discendo
in un sepolcro? Tutto è spento già?
Ella va barcollando dall’ombra
verso il chiarore dei torchi;
urta le mani nel cancello, vi s’afferra,
lo scuote; poi ficca il suo viso tra le sbarre e guata.
Ah, sempre ella ti tiene!
Disperatamente si sforza
di scuotere l’incrollabile ferro.
La coppia non si scioglie:
annodata e fissa rimane,
come escita dal senso,
come già dipartita e lontanissima.
Ah, sempre ella ti tiene! Figlio, figlio,
io, io sono! Non m’odi?
non mi conosci?
Dinanzi al silenzio si smarrisce.
Le sue mani incerte vagano sul suo volto
scavato dall’ombra.
non mi conosci? Ah, questo è sogno, questo
è sogno, o sortilegio,
o somiglianza di follìa. Che mai?
Certo, ah certo, incredibile
è ch’io m’abbia il mio senno,
e pur ch’io viva.
Ma vivo, e guardo, e vedo. Questo è ferro.
Alcuna cosa dunque
v’è più chiusa di questa,
v’è più sorda del muro,
più cruda della morte,
per separare dalla madre il figlio,
la carne dalla carne, me da te?
Ancóra ella ficca tra le sbarre la faccia,
e ansa come appesa a ordigno di tortura.
O legamento d’Inferno! Se più
ti chiamo, più la serri! Come più
grido, più ti nascondi!
Quanto più mi dispero,
più ti profondi in lei!
O svergognata femmina, che gli hai
tu fatto? E tu,
e tu da che sei nato?
Sciogliti, slàcciati,
da te scacciala, salva
l’anima tua!
Ella grida e s’agita invano
come sopra lapide di tomba
che non rende il sepolto.
l’anima tua! Ma volgi il capo, volgi
almeno il capo, guardami una volta
sola! Chi ti son io?
Chi sono?
Il furore la solleva e la moltiplica.
Chi sono? Scrollerò
il ferro, torcerò
le sbarre, strapperò
i serrami. Ho la forza
di mille. O mala femmina,
lascialo! Ti comando
di sciogliere il mio figlio!
Il furore la strozza e l’accascia.
I ginocchi le mancano, e i gomiti.
Ella cede, s’umilia.
Ebbene, sì, tu l’hai.
Tu me lo prendi,
tu me l’uccidi,
tu me lo danni. È tuo.
L’hai suggellato in te
meglio che nella pietra
del sepolcro. Ma rendimelo
per un attimo solo,
ch’io lo baci e riversa piombi giù!
Rendimelo pel bacio d’agonia!
Sì, forte sei. È tuo,
tuo. M’inclino, mi piego,
imploro. È tuo per sempre.
Lo so. Perdono
ti chieggio d’ogni grido.
Ma sol voglio baciarlo,
toccare il suo mento
e i suoi capelli,
guardarlo per un attimo
negli occhi, e nulla più.

Parisina abbandona le braccia lungo i fianchi
e un poco discosta il viso.
Ma l’amato non allenta la stretta;
anzi è come colui che,
giacendo su la bocca, prende l’origliere
co’ due pugni per più profondarsi
nel nero sonno.

PARISINA
Vedi, non io lo serro
e non io tel diniego,
madre. Santa mi sei,
però che di te nacque.
E fammi perdonanza,
se puoi. Donami pace.
Ma forse non udita
da lui fu la tua voce;
né forse ei l’ode ancóra;
ché già, quando apparisti,
èramo là
donde non più ritorna
né più si volge
l’anima innamorata.
Dolcemente ella solleva il capo dell’inconsapevole,
disnodargli tenta le braccia tenasci.
Intendi, o dolce amico.
Venuta è la tua madre
all’altra riva
per donarti commiato.
Convien che tu ti volga,
che incontro a lei ti muova
e che l’acqua rivarchi.

Egli sospira dal profondo,
come rioppresso dalla nuvola del suo corpo.

UGO
Ah, soffro!

LA MADRE
Ah, soffro! O figlio!

PARISINA
Ah, soffro! O figlio! Va.

UGO
Ah, perché soffro?

LA MADRE
Figlio!

PARISINA
Figlio! Va.

UGO
Figlio! Va. Tu mi tieni.

PARISINA
No. Va.

Ello lo sospinge. Penosamente egli si muove come vincolato.
I suoi occhi sono socchiusi come quelli
che temono essere feriti o non sanno fugare il sopore.
La sua voce è come di fanciullo smarrito,
quella di Parisina è come soffio di persuasione.

UGO
No. Va. Vieni. Accompagnami.

PARISINA
Va. Va.

Egli s’arresta, quasi che da grande fatica estenuato
sia per tentar di rompere il legamento invisibile.
Chiama come in angoscia mortale.

UGO
Va. Va. Non posso. Parisina!

Con tutta l’anima abbrancata al ferro che non si crolla,
la madre protende le labbra verso lui.

LA MADRE
Va. Va. Non posso. Parisina! O figlio,
o figlio, vieni, vieni!

Egli non più s’avanza. Non può giungere fino a lei.
Non può ricevere il bacio materno.
Altri suggellò le sue labbra per l’amore e per la morte.
Chiama ancóra dal profondo; e si rivolge.
E di sùbito la forza gli si riprecipita nelle vene,
per gittarlo ancóra sul petto dell’invitta amante.

UGO
o figlio, vieni, vieni! Parisina!

Dalla disperazione materna erompe un urlo inumano.
Parisina prende tra le palme la faccia del morituro e l’affisa.
Poi lieve inviluppa in un drappo nero
il bel capo che dev’essere mozzato.
Mentr’ella fa l’atto di condurre la vittima verso il ceppo,
il giustiziere muove un passo, la scure brilla.
Esala il grido estremo la madre, e cade riversa.
Si scorge Ugo inginocchiarsi dinanzi al ceppo
e di contro a lui inginocchiarsi Parisina,
togliergli d’intorno al capo il drappo,
ancóra prendergli tra le palme il capo
e quivi sul ceppo tenerlo sotto il colpo imminente.
Per la balestriera entrano il barlume dell’alba
e il segno fioco della Salutazione angelica.

F I N E