L’Aretusa

Favola in musica

Libretto di Ottaviano Corsini
Musica di Filippo Vitali

Prima esecuzione: 8 febbraio 1620, Roma, Casa di monsignor Corsini.

Personaggi:

DIANA fa il prologo soprano
ALFEO fiume contralto
ARETUSA ninfa soprano
FLORA ninfa soprano
FILENO pastore, padre di Aretusa contralto
DORINO fratello di Aretusa contralto
SILVIO pastore sconosciuto
CARINO pastore contralto
AMINTA pastore contralto

Coro di Pastori.

Libretto – L’Aretusa

Illustrissimo…
…e reverendissimo signor patron colend.
Udì v. s. illustrissima questo passato Carnovale (in casa di monsignor Corsini) la favola d’Aretusa, ma non conobbe me per autore di quella, che per la umile e bassa fortuna non ebbi ardire pararmele innanzi. Ma avendo io all’ora conosciuto dalle sue cortesi maniere, e compreso da benignissimi ragionamenti da lei con altri principi sopra detta favola tenuti, che ella ne prese diletto, ho pensato esser buon mezzo per dare a v. s. illustriss. notizia di me, il metterla alla stampa sotto la sua magnanima protezione, acciò che il venirgliela a presentare aprisse a me la strada di baciarle con ogni riverenza la veste, e a’ suoi eccellenti e rari cantori desse comodità di poter nell’ore meno impedite, rinnovare alcuna volta nel petto di v. s. illustriss. parte di quel piacere che all’ora provò. Né credo di dover essere tacciato di troppo ardire, essendo dovuta quest’opera a lei sola, sì perché la sua maggior bellezza consiste in esser stata onorata dalla presenza di lei, sì anche perché non ad altro fine si mosse monsignor Corsini a farla recitare, che per distrarre (per breve spazio di tempo) l’animo di v. s. illustr. dalle continue cure de’ più importanti negozi della cristianità, con onesta ricreazione in quei giorni che da tutti si sogliono in passatempi spendere e consumare; onde spero, che v. s. illustr. userà in perdonarmi l’innata sua benignità e bontà, e gradirà il mio devotissimo affetto, mentre quello dà e offerisce che più può, e mentre più vorrebbe potere per più offerire, insieme con l’osservantissima mia servitù; e per fine profondamente inchinandola, prego Dio benedetto per la conservazione di v. s. illustr. Di Roma a dì 30 di Maggio 1620.

Di v. s. illustr. e rever.ma
umiliss. divotiss. e fideliss. servitore
Filippo Vitali

Al benigno lettore
Eccoti alla stampa (cortese lettore) la favola d’Aretusa, la quale, benché fatta recitare in musica da mons. Corsini in casa sua solamente per dare all’animo dell’ill. e rev. sig. cardinal Borghese ne’ giorni carnovaleschi qualche breve e onesto alleggerimento dal continuo peso de’ negozi pubblici di tutta la cristianità, fu poi, permettendolo s. s. ill.ma, fino a nove volte per soddisfazione della corte rappresentata: onde sono andato sovente meco medesimo rivolgendo come esser potesse, ch’ella non che venire a noia, ma più sempre piacesse, in tanto che ogni volta maggior popolo concorresse per vederla, e molti ancora più d’una e più di due volte si compiacettero di tornarvi. Volentieri crederei esser questo avvenuto per l’esquisitezza della poesia, s’io non sapessi certo che chi l’ha composta (1) mai non ebbe familiarità con le muse di Parnaso, alle quali ne anco in questa occasione avrebbe dato molestia, se egli non fosse stato maggiormente da me molestato in guisa che per togliersi dagli orecchi così fatta seccaggine, gli fosse forza metter mano in una pasta non mai prima da lui maneggiata, e con questo con tanta fretta per la strettezza del tempo, che quando bene egli fosse stato perito e esperto poeta, e avesse per suo diletto e per sua elezione questo pensiero nella mente concepito, non perciò avrebbe potuto partorir cosa che tanto piacesse, come questa è piaciuta. Vorrei ancor poter con verità dire esser questo proceduto dall’eccellenza della musica, ma se giro la mente alla debolezza del mio ingegno, conosco manifesto non si convenire a lui questo vanto, massime in Roma, dove per esser città abbondantissima di perfettissimi maestri in questa professione, ogni giorno si sentono opere di stupore, senza che anch’io sono stato dalla fretta troppo sospinto e premuto; il che potrai agevolmente comprendere, lettore, dal sapere che si cominciarono a metter insieme le parole a’ 26 di dicembre 1619, e fu poi per la prima volta, alla presenza di nove cardinali, recitata l’ottavo giorno di febbraio 1620, di sorte che in 44 giorni fu principiata e finita la favola, trovata la musica, distribuite e imparate le parti, esercitati e provati i recitanti, e finalmente, rappresentata. E, si vuol dunque quasi che per forza conchiudere non doversi questa lode ad altro che al proporzionato e leggiadro apparato della scena e degli abiti, alla graziosa e decente maniera degli istrioni, alla novità dello stile recitativo in musica.
Era nella scena figurata l’amenità delle selve e de’ campi dell’Arcadia, la quale da Pompeo Caccini con diligenza dipinta, e opportunamente per di dentro illuminata, al cader della tenda pienamente soddisfaceva a gl’occhi degli spettatori, la qual sodisfazione era mantenuta dalla vista degli abiti pastorali molto rilucenti per le loro dipinture, e per l’argento delle tocche delle quali erano fatti, e ravvivata nel fine con la venuta di Diana dal cielo sopra una nuvola molto artificiosamente condotta. Gl’istrioni quali siano stati sarà facile immaginare, se considererai che in niuna parte del mondo più che in Roma è maggior comodità d’avere eminentissimi cantori. Essi davano alle parole ed al concetto coi gesti vivissimo spirito; tutti i lor movimenti erano graziosi, necessari e naturali, e avresti nei loro volti conosciuto ch’essi sentivano veramente nel cuore quelle passioni che con la bocca spiegavano. Pompeo Caccini, di sopra nominato, figliuol di quel Giulio Romano inventor (che ben lo posso dire) delle grazie nel canto e della vaghezza nelle musiche a aria, ancorché vestisse la persona d’un freddo fiume, si mostrò nondimeno così caldo dalle fiamme d’amore vers’Aretusa, che accese in ciascuno pietà dei suoi affanni. Gregorio Lazerini, eunuco ai servizi dell’eccellentissimo sig. Francesco Borghese. Generale di santa chiesa, con quella sua veramente angelica voce mentre finto Aretusa rappresentò il zelo della sua castità, e mentre in forma di Diana dimostrò la celeste benignità, ebbe chiaro e notabil applauso da tutto il teatro. Malagevol era in Francesco Rotondi giudicare se fusse in lui, mentre recitava la parte di Carino, maggiore la sicurezza del canto, la franchezza del modo, o veramente la grazia. Mario Savioni, allievo del sig. Vincenzo Ugolini, maestro di cappella di S. Luigi de’ Franzesi, fanciulletto in età di 12 anni, in persona di Dorino, fratello d’Aretusa, fece conoscere con l’affettuoso cantare e con l’attitudine dei gesti quanto buon maestro egli avesse avuto e quanto fossero in lui gli anni del senno avanzati. Flora così bene gli onesti femminili costumi d’una ninfa poneva con delicata e franca voce innanzi agli occhi, che avresti detto esser veramente donzella e non già Guidobaldo Bonetti, eunuco a’ servizi del sig. marchese Gio. Battista Mattei. D’Aminta vorrei tacere, perché quanto bene egli raccontasse il caso d’Aretusa solo il può intendere chi lo sentì: espresse Lorenzo Sanci de’ Banchetti in quel personaggio più d’una volta a viva forza le lagrime degli spettatori con tanto garbo, che largamente confermò l’opinione che s’aveva di lui, che fosse eccellente cantore. Francesco Ranani nella parte di Fileno, padre d’Aretusa, pianse nei suoi dolori, e fece per compassione piangere chi ‘l sentiva, e nelle sue allegrezze negli spettatori ancora trasfondeva piacevol contento così bene che reggeva e moderava la sua voce, e coi gesti opportunamente l’aiutava. Gli altri pastori del Coro non déi credere che fossero a questi inferiori.
Tutti insieme adunque, accompagnati secondo il bisogno dell’armonia di due cimbali, di due tiorbe, di due violini, di un liuto e d’una viola da gamba, facevano così bel sentire, che a niuna altra cosa che a loro si può attribuire il tanto diletto che ciascuno da questa favola ha pigliato. Non ha dubbio ancora che tutte le cose nuove grandemente piacciono all’animo degli uomini, i quali desiderosi per natura di sempre imparare, par loro in quella non più udita imitazione di conseguirlo. Questa maniera dunque di cantare con ragione si può dir nuova, poiché nacque in Firenze non ha molti anni dal nobil pensiero del sig. Ottavio Rinuccini, il quale essendo dalle muse unicamente amato e dotato di particolar talento nell’esprimere gli affetti, avrebbe voluto che il canto più tosto accrescesse forza alle sue poesie che gliela togliesse, e discorrendo col sig. Iacopo Corsi bo. me., mecenate di tutte le virtù e intendentissimo di musica, come fosse da fare che la musica non solamente non impedisse l’intender le parole, ma giovasse ad esprimer maggiormente e più vivamente il senso e il concetto loro, chiamati a sé il sig. Iacopo Peri e il sig. Giulio Caccini eccellentissimi maestri di canto e di contrapunto, tanto insieme divisarono, che credettero averne trovato il modo. Né s’ingannarono: perché recitata in questo nuovo stile la favola di Dafne, poesia del detto sig. Ottavio, in Firenze in casa del sig Iacopo Corsi, alla presenza degl’illustrissimi sig. cardinal dal Monte e Montaldo e de’ serenissimi granduca e granduchessa di Toscana, piacque per sì fatto modo a tutti che gli lasciò attoniti di stupore. Questo parto poi crebbe notabilmente in bellezza nell’Euridice, opera degl’istessi artefici e nell’Arianna, del sig. Claudio Monteverde oggi maestro di cappella di S. Marco di Venezia, il quale ricevendol, anch’egli concorse in abbellirlo e adornarlo dei suoi ricchissimi e peregrini pensieri. Ed ora ch’egli è pervenuto in questa città, che ha prodotto i Soriani, i Giovannelli, i Teofi, padri, si può dire, del contrapunto e della musica, e infiniti altri mirabili ingegni e compositori, si dée sperare che sarà da loro a sublime perfezione condotto. Dovendosi dunque, comme ho detto, tutta la lode alla novità dello stile, all’apparato della scena e all’eccellenza dei cantori, e non ad altro, malvolentieri mi son lasciato consigliare di darla alla luce; ma m’è convenuto in fine soggiacere alle domande di chi non l’ha potuto vedere, e de’ recitanti istessi, de’ quali come soggetto dove hanno esercitata la loro virtù desiderava ciascuno di averla. So certo, lettore, che se io potessi stampare la grazia che i sopradetti autori le davano, non occorrerebbe che io preoccupassi con iscuse le tue orecchie, ma poi che questo non è permesso, riguarda più all’intenzion mia, che all’eccellenza dell’opera, che tu rimarrai appagato ed io con obbligo alla tua discrezione. Dio ti guardi.

Filippo Vitali

(1) L’autore delle parole fu mons. Ottavio Corsini

Prologo

Scena unica
Diana.
Sacrati eroi, che l’onorata chioma
d’ostro, e più di virtù l’alma cingete,
e con opere eccels’ognor rendete
più chiaro il Tebro e più superba Roma.
Donne reali, onde l’idea sovente
di celeste beltà natura ha tolto,
che Vener ne begl’occhi e nel bel volto
sembrate, e me nella pudica mente,
io, gran figlia di Giove e di Latona,
io, che spiro onestà nel vostro petto,
so che mirar vi fia nobil diletto
come s’ha contro Amor guerra e corona.
La vergin Aretusa oggi vedrassi
divenir per pietà liquido nume,
fuggendo per l’innamorato fiume
sotterr’ancor con disusati passi.
Il ciel, mortali, è di virtù mercede
ed è rara virtù vincer’Amore,
e chi vincer lo vuol, per tempo il core
al ciel rivolga ed alla fuga il piede.

Atto primo

Scena prima
Alfeo.
Ben sei possent’Amore
nel cielo e nella terra:
ogni belva più fera
dalla tua forza è vinta.
Ogni nume celeste a te si rende.
Amor dell’auree stelle
il regnator sovrano
più volte a te soggiacque
né valse al gran tiranno
del tenebroso Averno
contr’i tuoi colpi di fierezza armarsi.
In qual parte non sono,
Amor, dei tuoi trionfi
alti vestigi impressi?
Benché fanciullo ignudo,
mirabil cosa oprasti
in ogni età del mondo, in ogni loco;
ma questo è del tuo foco
il miracol maggiore:
che possa in mezz’all’acque arder un core.
Ahi, che pur tropp’è vero,
et io ne fo la prova,

"Dimmi il mio nome prima dell'alba, e all'alba vincerò"
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