La Statira

Dramma per musica

Libretto di Giovan Francesco Busenello
Musica di Francesco Cavalli

Prima esecuzione: 18 gennaio 1655, Venezia, Teatro Santi Giovanni e Paolo.

Interlocutori

DARIO re di Persia basso
STATIRA figliola del re di Persia soprano
CLORIDASPE re d’Arabia mezzosoprano
TERSANDRO consigliere del re Dario soprano
NICARCO generale del re d’Arabia basso
VAFFRINO servo di Nicarco tenore
Usimano, principe d’Egitto sotto nome d’ ERMOSILLA damigella di Statira soprano
Lindaura, sorella del re d’Arabia, sotto nome di FLORALBA damigella di Statira soprano
BRIMONTE generale di Dario contralto
ELISSENA vecchia tenore
BIRSANTE tenore
Indiano, SERVO di Tersandro altro
MERCURIO tenore
PLUTONE basso
MESSO soprano
MAGA soprano

Libretto – La statira

Illustrissimo, ed eccellentissimo signor

Vostra eccellenza, che gradì benignamente la mia obbedienza ad un comando suo nel dramma della mia «Poppea» (già tredici anni sono) ora resterà servita di gradir l’ossequio mio continuato a’ suoi comandi nel dramma della «Statira».
Chi scrive per ubbidire, merita con gli errori non meno, che con le perfezioni; la gloria dell’obbedienza ha quest’indulto dalla vita civile, di seppellire in lume tutte le macchie d’una imperfetta penna: e non avendo la mia, pur troppo dispare alle moderne idee di chi scrive felicemente altro per fine, che di servire con esatta puntualità a vostra eccellenza, niente m’importa di demeritare gli applausi: assai ho meritato eseguendo i comandi suoi.
Povero stile, ch’è discosto dall’essere, non che dal meritare non osa mendicare, non che ambire le laudi. Sta ristretto ne’ suoi logori panni; tiene in prospettiva la sua bassezza: una scusa cortese, una pietà urbana adempie di sovrabbondanza le sue umilissime pretenzioni; un occhio benigno lo arricchisce, una anco finta apparenza di soddisfazione lo beatifica.
Questa opera se piace a v. e. possiede il vantaggiato rimarco del prezzo suo; questo inchiostro si valuta per balsamo, se ella lo accetta per gradimento. E il rassegnarmi, e restringermi al solo compiacimento di vostra eccellenza è un grand’interesse di mia riputazione; perché se quello, che piace a’ principi, per testimonio de’ giurenconsulti, ha vigore di legge, quello che piace a’ padroni, goderà certo senza controversia il titolo di bontà almeno.
La mia povertà d’invenzione, e di elocuzione, m’assicura dall’invidia, non così dalla detrazione. Ma se l’ombre sole delle statue de’ cesari erano asili di sicurezza alle genti, l’ombra nobile di vostra eccellenza, che merita statue mi francherà da ogni oltraggio; i semplici caratteri del suo riverito nome fanno la salvaguardia in casa, e ‘l passaporto ne’ viaggi alla mia modestissima musa.
Al cenno de’ grandi amabile imperio, che unisce alla soavità l’efficacia, è intemperanza di costume il disobbedire; per tanto io mi fo a credere, che vostra eccellenza da me ubbidita, si compiacerà di esser tutela, e sicurezza alle mie povere scritture.
Ho pattuito strettamente, e legalmente con le mie proprie obbligazioni; che elle non pretendano mai di punto diminuirsi per qualsi voglia atto d’ossequio a vostra eccellenza; e però con il mio servirla di questo dramma, non derogo, e non pregiudico in minima parte agl’obblighi, che sempre più religiosamente le professo. Scrivendo, o no, esercito verso di lei la mia servitù. L’ozio, e l’opera, sono egualmente contrassegni della mia devozione; il respirare a me stesso, e il servire a vostra eccellenza, sono atti promiscui della mia vita, e della mia obbligazione.
Se questa fatica, e ricreazione mia, incontrerà nel genio cortese della maggior parte, doverà riconoscere quest’onorato vantaggio, e confessare questo beneficio illustre della vaghezza delle scene, dalla frequenza delle mutazioni, dalla ricchezza degli abiti, dall’abbondanza sontuosa delle comparse, dall’isquisitezza de’ musici, che vostra eccellenza ha fatti venir dal cielo, e dalla virtù sopra ammirabile del signor Cavalli; il quale convertiti in tanti numeri armonici i muti sensi de’ versi miei, e vestiti da idee i difetti, ha imitati i miracoli della creazione, di niente, far tutto; vostra eccellenza è tale, che de’ virtuosi cantanti, che la servono, si possono dire cose molto maggiori: la riputazione del suo teatro rende celebri le voci, e famosi i professori di musica: a la grandezza del di lei merito, e della sua fortuna, sono le meraviglie, trivialità, i miracoli, consuetudine.
Avrei scritto più diffusamente in questo dramma, ed uniti gli spiriti a sollevare a qualche grado lo stile, se la comandata brevità, e la proprietà della scena me ne avessero data licenza. Altro è comporre una ode, ovvero un sonetto, ove è permesso l’entusiasmo al pensiero, e l’estasi all’ingegno nell’eccitare gli aculei dolci agl’orecchi, ed il brillo lascivo nel cuore con l’invenzione d’una chiusa blandiente, e spiritosa; altro è comporre un dramma, ove i personaggi han correggi, parlano familiarmente, e se la vena troppo s’innalza perde il decoro, e la vera proprietà.
Eccedo i limiti d’una morigerata lettera, e spando me stesso fuori del continente del buon costume. A v. e. m’umilio, e la supplico credere, che io ho conseguito il mio fine, perché la ho servita come ho potuto, e saputo, e mi riconfermo eternamente di vostra eccell. umilissimo e divot. serv.
Gio. Francesco Busenello.
Di Venezia li 18 gennaio 1655.

Argomento
Il re d’Armenia, collegato con altri principi d’Asia, in un conflitto sanguinosissimo, che ebbe con Dario re di Persia, gli rubò la moglie Parisatide, e la figliuola Statira.
Cloridaspe giovane re d’Arabia innamorato di Statira, urtò violentemente gli armeni, e recuperò Statira, e sua madre dalle mani nemiche, e le condusse libere in mano a Dario.
Egli gratissimo al re d’Arabia, per tanto beneficio ricevuto, e che in quel fatto della recupera di Statira aveva rilevate ferite mortali, lo diede in custodia, e governo a Statira medesima, che lo curò, e medicò con balsami ammirabili, e lo guarì nell’appartamento del regio giardino.
Ma l’occasione maestra de’ lenocini, fece, che come l’arabo era acceso della principessa, così ella s’invaghisse di lui a’ ferventissimi segni. E qui comincia l’opera.
Nella quale:
Statira donna, e giovane, e per conseguenza indocile al tacere, confidò questo suo amore con una damigella, che si faceva chiamare Ermosilla; ma in fatti era Usimano principe d’Egitto, che innamorato per fama di Statira, era venuto in Persia in abito di donzella, e serviva alla principessa.
Usimano adunque intesi gli amori di Statira con l’arabo, s’accende di gelosia, e d’ira contro di lui, e questa ira è l’inviluppo di tutto il dramma; che resta poi sciolto da quella serie d’accidenti che vedrai.
Floralba altra donzella di Statira innamorata del re arabo, si scopre finalmente di essere di lui sorella, e divien moglie di Usimano, come Statira si fa sposa di Cloridaspe, con la rinuncia del regno di Persia, che vien fatta da Dario al genero Cloridaspe.
Protesta l’autore, che tutte le parole, e le frasi toccanti deità, numi, idoli, idolatrie, stelle, cielo, destino, sorte, e altre simili cose, sono semplici trascorsi di penna per l’adornamento della poesia, o per enfasi dell’orazione. Nel resto l’autore medesimo, che scrive come poeta, vive, e crede religiosamente come cristiano.

Prologo

Scena unica
Maga. Plutone. Mercurio.

[Recitativo]

MAGA
Orgonte re d’Arabia
(ahi nel ridirlo mi si spezza il core),
per un sospetto vano fece strozzar
il mio innocente padre,
ed io sopporterò che Cloridaspe
d’Orgonte figlio viva?
E l’arte mia, che fa tremar gl’abissi
e traballar nella sua sede il centro,
e in onta a Febo, a Giove,
nell’aria induce, e move,
nuvole, tenebre,
grandini, folgori,
turbini, fulmini,
non saprà vendicarmi?
Tenta oggi Cloridaspe
nozze regali in Persia. E sì impotente
sarà la forza dello sdegno mio,
che distornarle non saprà? Del cielo
se m’è interdetto il concitar lo sdegno,
all’ire accenderò l’oscuro Averno.
Ascenda in questo loco
l’orrenda Stige, il tenebroso inferno.

PLUTONE
Magica forza, e che non puoi? Da’ negri
siti perduti del tartareo mondo,
col tuo saper temuto,
qui conducesti Pluto:
dell’ombre pallide,
nel cieco baratro,
la verga orribile,
dimmi, che vuol?
Forse, che ammorzi i suoi splendori al sol?

MAGA
Voglio che in Persia mandi,
la tua ministra Aletto,
a dar tracolli, a machinar ruine
a Cloridaspe re d’Arabia. Io tento,
se di là dalla morte han forza gl’odi,
imperversar, con le sue polvi ancora.

MERCURIO
Ed io, che nulla temo,
delle magiche forze,
farò sì, che gli incanti
con ridicolo moto,
corrano l’aste in fallo, e i colpi a voto.

PLUTONE
Vanne, Aletto, e volando,
tenebrosa, ed ignota, e taciturna,
del tuo vipereo crine incrudelisci
gl’adirati serpenti,
ed avvelena nel passaggio i venti.
Al re d’Arabia spira,
pestilenze, malori,
attoscagli i respiri; e sia la morte,
il minore de’ mali,
che avventato gli sia dalla tua mano.
Faccia sue prove il tuo furor insano.

[Aria]

MAGA
Vendicata pur sarò,
già preveggo le ruine,
del figliol del mio nemico,
già le essizio a lui predico,
infelice lo vedrò.
Se nel mondo degl’estinti
la notizia non è oscura,
saprà Orgonte in sepoltura,
com’il figlio trattarò.

MERCURIO
Esser voglio a Cloridaspe,
invisibile custode,
ogni insidia, ed ogni frode,
più che vana io renderò,
ogni incanto disfarò.

Atto primo

Scena prima
Giardino tutto.
Statira. Cloridaspe.

[Aria]

STATIRA
Notte ascondi i tesori,
delle tremule tue brillanti stelle,
una sola,
che qui in terra,
splenda a me,
fa’, che le luci mie,
rinunciano il sereno al sole, al die.
Notte chiuder al sonno,
non puoi le innamorate mie palpebre;
palpitante,
chiede aita,
questo cor,
notte trammi d’impaccio,
l’incarnato mio dì porgimi in braccio.

[Recitativo]

CLORIDASPE
O divin rossignuolo,
oh del cielo d’amor canora idea,
riescon le sirene a’ naviganti,
dilettosi perigli, e liete morti;
questa voce beata, che mi spira
lascivie, ed armonie,
m’alletta, e mi lusinga,
ma sortiran queste blandizie al fine,
naufragi al core, all’anima rovine.

STATIRA
Sei tu re, vezzo mio?

CLORIDASPE
Mia pupilla, son io.

STATIRA
Questi calori estivi,
m’han condotta in giardino,
ove accarezzo i miei graditi errori,
aure fresche ricerco, e incontro ardori.

CLORIDASPE
Permetti che il cor mio,
d’improvviso assalito,
da lo stupor disleghi le parole,
a mezza notte in terra incontro il sole?

STATIRA
Ma che flagello è questo,
castigo gli occhi alla presenza altrui,
e da te lungi li rivolgo; ed ora,
che alcun non può osservarci,
invida notte ruba
del mio cielo umanato i bei colori.

CLORIDASPE
Ed io de’ miei sospiri,
sopprimendo gli sfoghi,
perché altri non li noti,
cauto idolatra, ascostamente adoro;
ed or che alcun non ode,
ed allegar dovrei le mie ragioni,
la cieca lingua mia parla a tentoni.

STATIRA
Se l’aria ricevesse
di questo cor le fiamme,
re, signor mio, respiraresti foco.

CLORIDASPE
Se stender potess’io nell’aria istessa,
una linea d’amore,
respiraresti un bacio idolo mio.

STATIRA
Parole innamorate,
non mi contaminate.

CLORIDASPE
Mi par sentir rumore, e l’alba sorge;
vanne mio ben, va’ su le molli piume,
ritorna sui guanciali profumati,
adagia i dolci avori,
fa’ riposar le respiranti brine,
delle membra divine,
che io sospiroso intanto,
con un soave pianto,
che da quest’occhi involontario cade,
prevenirò dell’alba le rugiade.

STATIRA
Tenirò stretta in seno
l’anima tua, tu stringerai la mia;
parto: non obliare,
d’esser il solo nume, in cui sper’io,
onde col dir «a te» ti dico «a dio».

[Duetto]

CLORIDASPE
S’incontriamo?

STATIRA
S’appressiamo?

STATIRA E CLORIDASPE
Tenebre tentatrici,
oscurità felici,
fosco gentil, caligini beate,
che due fochi amorosi approssimate.

STATIRA
Salva l’onestà mia;

CLORIDASPE
sana l’anima mia;

STATIRA
interdico a me stessa i tuoi diletti,

CLORIDASPE
uniam le bocche, oh dio, se non i petti.

STATIRA
Bacia questo ambiente,
assorbirò in un fiato i baci tuoi.

CLORIDASPE
In sì ricca abbondanza,
consigli così poveri mi dai?

STATIRA E CLORIDASPE
Orsù, partiam senza partirsi mai.

Scena seconda
Statira. Ermosilla. Floralba.

[Aria]

ERMOSILLA
Alba, ch’imperli i fiori all’erbe in seno,
tempra il meriggio a questo core acceso,
ed apri alla mia speme un dì sereno.
Amor, che mascherasti
di varie spoglie, e piume
il sovran d’ogni nume,
ti fu facile, e piano
celar sotto Ermosilla un Usimano.
Ahi forza, ahi violenza,
sotto aspetto giocondo
i miei martiri ascondo,
da dolce stral trafitto
languisco, e sono il principe d’Egitto.
Ignoto in Persia venni,
arcana idolatria
professa l’alma mia,
tra fortuna, e amore
ho su la ruota, e tra le fiamme il core.
Alba ch’imperli i fiori all’erbe in seno,
tempra il meriggio a questo core acceso,
ed apri alla mia speme, un dì sereno.
Che inusitato palpitare è questo,
tormentato cor mio?
Ahi sempre più bramata
vista di paradiso:
palpita cor, sospira,
ecco viene il mio ben, la mia Statira.

[Recitativo]

STATIRA
E come sì per tempo,
Ermosilla gentile,
vai di questo giardin, col tuo bel volto,
di mezza estate a rinnovar l’aprile?

ERMOSILLA
In questa bella varietà di fiori,
andavo unendo un simulacro finto
degli amorosi tuoi vaghi colori.

STATIRA
Dammi la fede tua salda, e sincera,
segretaria Ermosilla.

ERMOSILLA
Se nel cor sta la fede, e il cor ti diedi,
scoprimi pur madama i tuoi segreti.

STATIRA
Te ‘l dico, o non te ‘l dico?
La mente corre a trasformarsi in lingua,
retrograde il pensier torna nell’alma,
ma il cor, che ho sulle labbra,
fa volar i miei sensi a collocarsi
nella tua confidenza, o mia diletta.

ERMOSILLA
Signora di’, che sarà questo mai?

STATIRA
M’adora il re d’Arabia, adoro lui.
Ermosilla ti turbi?
Mi sei forse rivale?

ERMOSILLA
Rivale? O questo no.

FLORALBA
(La rivale son io;
ti sia tomba il silenzio, o dolor mio.)

ERMOSILLA
Non mi turbo signora, io godo, e parmi
che il tuo giudizio fino,
abbia scelto un amor ben di te degno,
regale fantasia
concepir non può mai manco d’un regno.

STATIRA
Avvampo tutta, e son ridotta in polve;
quel bel viso, Ermosilla,
scusa i miei falli, e le mie colpe assolve.
Eccolo appunto: mira,
se Giove in quel bel volto
stancò la maestà tradusse i cieli.

ERMOSILLA
Sfortunato Usimano,
oggi il tutto perdei,
e veggo espressi i funerali miei.

FLORALBA
(Ahi di questa tragedia,
solo interlocutore è il sangue mio.)

Scena terza
Statira. Cloridaspe. Ermosilla. Floralba.

STATIRA
Ingrato sei, perdonami signore,
con pace detto sia di tua corona,
ti sano il fianco, e tu mi piaghi il core?
Curo le tue ferite e fo me stessa
elisir a’ tuoi mali,
tu nell’alma mi dài colpi mortali?
Se nell’Arabia tua sta la Fenice,
che nella scola del morire impara,
dell’immortalità, precetti veri,
deh fa’, ch’ella m’insegni
l’arte fatal del contrastar la morte.
Cessa di fulminarmi,
con quelle luci belle,
tempestino le nubi, e non le stelle.

ERMOSILLA
Hai più veleni amor, più strazi e morti?

FLORALBA
(Oh Floralba infelice.)

CLORIDASPE
Statira, ad un defunto,
chiedi rimedi, per sanar la vita?
Obblighi un seppellito,
a risposte vitali?
Con quella man che move invidia all’alba,
e con la neve ha già vinte le liti,
toccando i polsi miei frequentemente,
quest’anima ha condotta all’occidente.
Me ferito sanasti,
ma questa sanità,
costa all’arbitrio mio la libertà.

[Duetto]

ERMOSILLA
(Arabo traditore.)

FLORALBA
(Ahi parole, ahi pugnali.)

[Insieme]

STATIRA
Oh ferite.

CLORIDASPE
Oh saluti.

CLORIDASPE
Oh ben curati…

STATIRA E CLORIDASPE
Oh mal guariti mali,
oh dolcissimi strali,
acuiti al coral d’un labbro amato,
da un bel ciglio scoccati,
che fan colpi nettarei imbalsamati.

[Recitativo]

CLORIDASPE
Vado a riverir Dario, anima, a dio.

STATIRA
Vattene signor mio, porto nel core,
del tuo viso adorato
il ritratto divino,
ed in tua vece resta meco Amore.

CLORIDASPE
Amor resterà teco? Io son geloso.
S’ei ti stimasse Psiche?

STATIRA
Non vaneggiar, re mio,
non permetterò mai,
che rivale ti sia né pure un dio.

FLORALBA
(In un’anima sola,
moltiplica le morti Amor crudele.)

Scena quarta
Ermosilla.
Che l’unico figliuol del re d’Egitto
sopporti aggravio sì pesante, è indegno,
non è decoro mio,
né può patirlo di mio padre il regno.
Ricorro a te vendetta,
ch’all’onorata mensa il sangue bevi.
Sdegno mortificato,
è un oltraggio all’onore;
torto dissimulato,
debolezze rinfaccia a tutte l’ore.
Chi m’assicura, che Statira, in onta
dell’amor mio, non sia tant’oltre corsa?
Forse ella mi conosce, e villipende
il mio genio caduto,
a fingermi donzella,
e argomentando in me bassezze d’alma,
fa sì, che un altro i miei disegni usurpi.
La mia fronte, che nacque a le corone,
i sepolcri d’Egitto
che innalzan le piramidi all’Olimpo,
sé stessi offenderan di tal vergogna?
Ira sta’ cheta, e t’apparecchia all’armi.

[Aria]
Pazzo, insolente Amor,
all’altar dell’onor l’imperio cedi,
abbandonato resta,
porto il decoro in testa,
e le quadrella tue mi getto a’ piedi.

Scena quinta
Vaffrino moro.

[Recitativo]
D’Ermosilla giovanetta
sento al cor strale amoroso,
pur a lei che sì m’alletta,
il mio mal scoprir non oso.
E mentre in chiuso ardor io mi consumo,
nel core ho il foco, e ne le guance ho il fumo.
Potrei dir, son capo nero,
che è rinchiuso in una gabbia,
meglio è dir son prigioniero,
che si gratta ancor la scabbia.
E fin che venga il dì, ch’io sia guarito,
soave è il pizzicor, dolce è il prurito.
Tentarò, perché il tacere
del goder non sa la via,
nel commercio del piacere
il silenzio è una pazzia;
quel che il tacere indice a tutte l’ore
Arpocrate si chiama, e non Amore.
Tanti incalmi vagheggio
in questo bel giardino,
né vi sarà l’innesto d’un Vaffrino?
O Pomona, o Vertunno,
fa’ che de’ frutti io goda,
a la corrente moda,
grassa vendemmia, e dilettoso autunno.
Ma vo’ tornar al mio signor, che forse
m’attende in corte: o maledetta, e vile
condizione servile;
natura certo volse dir, «morire»,
ma errò la lingua, e proferì «servire».

Scena sesta
Dario. Tersandro.

DARIO
Io non v’intendo, o stelle,
comandate a’ regnanti,
de’ loro scettri il ministerio giusto;
Dario re sempre adempie,
i vostri eccelsi, e luminosi cenni;
e tutta via con guerra così ingiusta,
m’uccidete i vassalli,
m’opprimete le genti;
par che la regia lode
consista solo in occupar l’altrui,
io sol conservo il mio,
voi secondate i barbari predoni,
stelle non intend’io vostre ragioni.

TERSANDRO
Tresca il ciel co’ mortali;
la natura, e la sorte han lotta insieme,
l’uomo è il riso de’ numi.

DARIO
Re, che osserva de’ numi
i prescritti e le leggi, e il buon costume,
insegna con l’esempio, e non col ferro,
precipizi non merta.

TERSANDRO
La fortuna superba, e ambiziosa,
a teste coronate non perdona.
Sembra a lei gloria vile, urtar la plebe,
s’appaga sol di contrastar coi grandi.
Sol con le torri eccelse
a duellar il fulmine vediamo.

DARIO
Della fortuna è immaginario il nome;
ma, l’accorto destin, con lei si copre;
e ciò, che sembra caso,
è fissezza di stella pertinace,
che spande in noi degl’infortuni il vaso.

TERSANDRO
È maestà, è grandezza
contrastar col destino,
e fronteggiar con avversario cielo.

DARIO
È miseria, è disdetta
pugnar con invicibile inimico;
come poss’io ferir gl’astri crudeli?
Son re; ma non mi esclude
lo scettro, o il tribunal da mali incontri;
che al mio dispetto, un uom io son; la sorte
mille volte porrammi al sommo, al fondo,
e schiavo, al fin, mi venderà alla morte.

TERSANDRO
Ancora senza senno, armate navi,
difende in mar da turbini, e procelle,
e tua virtù, che non ha pari in terra,
non ti difenderà da cielo irato?

DARIO
Col tuo dolce discorso,
che tue ragioni a le mie laudi accorda,
mi lusinghi gl’orecchi, e non componi
di quest’alma i tumulti;
troppo frequenti io provo
del destino crudel colpi, ed insulti.

TERSANDRO
Tua virtù bellicosa
sarebbe rugginosa,
istromento de gl’ozi, arma sepolta,
se dell’armeno il vigoroso ferro
non suscitasse in lei spirti guerrieri.

DARIO
La pace sola è il nettare de’ stati,
de’ traffichi nutrice, e delle genti,
è il contrassegno dell’amor de’ cieli;
la guerra vive sol, di sangue, e d’oro,
è la pace nutrice, e l’uno, e l’altro.

TERSANDRO
Ecco, signor, il re d’Arabia viene.

Scena settima
Dario. Cloridaspe.

DARIO
Te salvo abbraccio, e nella tua salute
respira il petto mio sensi felici.
Dalle tue cicatrici,
se più non esce il sangue,
di bella gloria scaturisce il lume.
Il regno mi salvasti,
la figlia mi donasti,
la mia corona è angusta
per render grazie a tua virtute augusta.

CLORIDASPE
Signor, della regina, e di tua figlia
tale è stato de’ balsami l’impiego,
ch’hanno sanato in breve
mie ferite mortali.
La vita ch’io vivei,
prima d’esser ferito,
era un feudo di sangue, e di respiro,
donatomi da Giove! or la mia vita
della regina, e di Statira è dono.
Se patteggiar potessi,
della religion coi nostri numi,
appresso a gl’altri dèi,
Statira, e la regina adorerei.

DARIO
Non so chi più t’illustri,
cortesissimo re, Pallade, o Marte,
l’ornamento del dir, che è in te sì dolce,
imperla la tua spada, e indora l’armi.
Andiam, che della guerra,
teco discorrer bramo,
te d’ogni mia fortuna a parte io chiamo.

Scena ottava
Nicarco. Vaffrino.

NICARCO
Vaffrin, fin da fanciullo
nelle mie case ti guidò fortuna.
T’ho sempre amato, or voglio darti
dell’amor mio sicuro pegno.
Tacer religioso
ti sigilli nel petto,
ciò ch’a la fede tua scopro, e commetto.
Ne i recessi dell’anima profonda,
a tua sola notizia, accendo il lume,
e perché in te mi fido,
teco il mio core espettoro, e divido.

VAFFRINO
Non t’inganni, signore,
sotto queste caligini del volto,
di purissimo zelo arde il mio core;
dentro a negra miniera è ascosto l’oro;
sta bianca fé, sotto sembiante moro.

NICARCO
Conosci tu Ermosilla?

VAFFRINO
La conosco pur troppo,
e porrei volentieri
sopra i suoi bei ligustri i miei carboni,
che bel veder sarebbe,
dentro uno scurcio breve,
sotto il mio inchiostro incarbonir la neve.

NICARCO
Lascia di folleggiar, tu la conosci.

VAFFRINO
Dico di sì, mi piace, e mi diletta.

NICARCO
Quella è l’anima mia,
tutte riposte ho le mie spemi in lei.
Sta chiuso in questo foglio,
sotto larve di righe il mio cordoglio.

VAFFRINO
Signor, non creder troppo,
a sembiante fiorito,
fede in Amor è un capital fallito.
Vorresti mo ch’io fossi
il corriero amoroso,
che per le poste de gl’instanti andassi
a portarli il tuo foco in carta ascoso?

NICARCO
Sì, Vaffrino, vorrei,
in questo afflitto seno,
impoverito d’alma,
vive riposto, come in un chiuso loco,
ardente vicecor, d’Amore il foco.
E perché tu conosca
quanto infiammato in questo affett’io sono,
per mancia a te, la libertade io dono.

VAFFRINO
Adorato padrone,
non merta l’opra mia tal guiderdone;
tua mercé lo ricevo,
ed in un certo modo,
se da’ languori tuoi cavo il ristoro,
con innocente senso,
beneficato, i tuoi travagli adoro.
Dammi la carta, e va’,
Vaffrin nunzio felice a te verrà.
Della tua fede, Amor, son diventato,
così pian piano, un moro rinnegato.

Scena nona
Vaffrino.
Metamorfosi, in vero troppo strana,
in causa propria l’oratore io fui,
ed ora son procuratore altrui.

[Aria]
Amor, sei risoluto,
che questo premio la mia fé riceva:
ch’io sprema l’uve, e ch’altri il mosto beva;
infelice molin, frangerò i grani;
altri avrà a mensa i saporiti pani.
Sfortunata bilancia,
pesando l’oro sudo, e m’affatico,
ma ne i tesori altrui resto mendico;
son del vestir civil ritratto espresso,
che per altri adornar, straccio me stesso.
Somiglio a quella spada,
che quando la vittoria è conseguita,
dentro un fodero vile, è seppellita;
bombice son, che in sorte poco lieta,
prigion fo a me per dar altrui la seta.
Or non più somiglianze:
caviamo di lambicco gli intelletti,
in sceglier forme, ed abbellir concetti:
nella commedia del commercio umano
già fui l’innamorato, or fo il ruffiano.

Scena decima
Elissena.

[Recitativo e Aria]
Anni, non so ben dire s’io vi
debba chiamar numeri, o pesi.
Ma se pesi voi siete,
incurvata m’avete,
onde stanca, e mal viva,
ho la mia sepoltura in prospettiva.
E se voi siete numeri, osservate,
con l’abaco del tempo,
al nulla giunte omai le mie giornate.
Poiché Statira è nel giardin reale,
non l’ho veduta, e di vederla io bramo.
Mi ricord’io, che giovinetta andavo come
mi consigliava il cieco dio,
al giardiniero, ch’era tutto mio.
Gioventù,
non è più,
quel che fu.
Il fine poco fia che s’allontani,
che stenta l’oggi al ritrovar domani.
Quello ch’è,
male a fé,
tiensi in piè?
Quando il posto tener credi occupato,
soffia via le tue polvi il tempo alato.
Se d’Amor
t’arde il cor,
godi il fior,
che se all’opre stamane il senso è ardito,
avrai stasera il polso indebolito.
Ti so dir,
che il gioir,
sa fuggir,
niente è il fu, il sarà inganna spesso,
disponi sol d’un fuggitivo adesso.

Scena undicesima
Vaffrino. Ermosilla.

VAFFRINO
Sola e pensosa d’un bel faggio all’ombra
Ermosilla colà seder vegg’io;
coraleggia in quei labri
una rosa vermiglia,
che chiama i baci da lontan tre miglia.
Ha scarmigliato il crine.
Quell’oro inordinato,
quel globo di comete,
quel biondo laberinto,
tiene il mio core avvinto.
Così volesse il cielo,
che quelle braccia d’animata neve,
dallo spuntar al tramontar d’Apollo,
fossero a me dolce catena al collo.

ERMOSILLA

Se mi val forza d’ingegno,
se l’astuzia gioverà,
al rivale, arabo indegno,
il pensier non sortirà.
Ira, picca, martello, gelosia,
date rimedio all’aspra pena mia.
IIº
Sappia il mondo, intenda Amore,
ch’io mi voglio vendicar,
usi insidie questo core,
purché cessi il mio penar.
Ira, picca, martello, gelosia,
date rimedio all’aspra pena mia.

[Recitativo]
Vaffrino, ove si va?

VAFFRINO
Messaggero amoroso,
buone notizie t’arreco.

ERMOSILLA
Onorato esercizio; e chi ti manda?

VAFFRINO
Il general Nicarco,
che agli eserciti arabici comanda.

ERMOSILLA
(Fortuna, tu m’additi,
un sentiero opportuno a’ miei disegni.)
Che chiede il tuo signore?

VAFFRINO
Egli ha estesi qui dentro,
vestiti di caratteri i pensieri;
questa carta è un trasonto
della sua ardente, innamorata idea.

ERMOSILLA
(O giorno geniale,
che mistura di nubi, e di sereno?
Un’ora fa, colpo mortal mi punse,
ora mi si apre al core alta speranza.)
Vaffrin, di’ al tuo signore
che gradisco il suo amore.

VAFFRINO
(Sia maledetto me, che non fui degno
negl’interessi miei di tal risposta.)
Non ti turbar, donzella: questi sono
sternuti di passione, asmi di core,
sensi bizzarri, e sincopi d’ingegno.

ERMOSILLA
Digli: che seco ragionare io bramo,
nel boschetto de’ platani l’attendo:
di’ che venga, ma solo: a dio Vaffrino.

VAFFRINO
Va’ felice Ermosilla,
ti sia l’aria tranquilla;
e mentre il cor ti brilla,
e ‘l mio pianto si stilla,
e il martellin mi batte a suon di squilla,
vorrei, che in questa villa,
d’amor la mia favilla
che fiammeggia, e scintilla,
entrasse fra le tue Cariddi, e Scilla.

Scena dodicesima
Floralba.

[Aria]
Mal misurati affetti,
voglie sproporzionate,
che più mi tormentate?
Son vil serva, ed amo un re,
miro il sole, e talpa sono;
dopo uscita fuor di me,
l’anima va raminga in abbandono.
Ben m’accorgo, e ‘l cor lo sa,
Cloridaspe è di Statira.
Precipizi troverà,
s’improprio amor, s’a tant’altezza aspira.
Ahi Floralba, non mirar
maestà, che troppo eccede,
lascia omai di vaneggiar,
saggio, è ‘l desio, che all’impossibil cede.
So, che la fiamma mia,
altro intento ottener non potrà mai,
che negletto, e sopito,
un fine, tra le ceneri avvilito.
Ma, sconsigliata amante,
ho il cor tra le ruine, e le cadute.
Nascer forse potrebbe
da spelonca di guai la mia salute.
Non lungi è, forse al mio desir la meta,
nebbia non mi sgomenti,
orror non mi spaventi,
della sera il mattin non è profeta.
Deità,
che movete,
e reggete,
la caduca umanità,
deh non abbandonate così afflitta
innocente donzella, e derelitta.
Io non so
da qual madre,
da qual padre,
generata al mondo sto;
ma se di un re mi sento innamorata,
forse, ch’io son di regia stirpe nata.

Scena tredicesima
Statira. Floralba. Elissena.

[Recitativo]

STATIRA
Parmi un’ora mill’anni,
ch’io non veggo il mio re;
alma, stan chiusi in te tutti gl’affanni.

FLORALBA
Così in disparte, o ciel, piango i miei danni.

STATIRA
Aure, che ricevete
di quella bocca i fiati,
nel mio seno infondete
respiri dolci, ed aliti beati.
Aere puro, e sereno,
i sensi del mio ben, spirami in seno.

FLORALBA
Moribondo il cor mio langue, e vien meno.

STATIRA
Dove fai paradiso,
col vezzoso sembiante?
Dove ascondi il bel viso,
che può far l’odio divenire amante?
Dove, o dio, dove sei,
felicità de’ patimenti miei?

FLORALBA
Accenti, ohimè, della mia morte rei.

ELISSENA
Seco stessa ella parla.
Soavi frenesie,
gioconde fantasie,
vertigini di cor, deliqui d’alma,
soliloqui di mente, astratti sensi,
estatichi trascorsi,
idolatrie canore,
a cui misura le battute amore;
dolcissimi deliri,
mi ricordo ancor’io de’ miei sospiri.

STATIRA
Elissena, richiama
l’antica gioventù,
volgiti a dietro, e retrocedi i giorni;
ringiovanisci i sensi a questa volta,
dell’amor mio la dolce istoria ascolta.
Sai che del re d’Armenia
l’esercito feroce mi rubò,
e che d’Arabia il re mi liberò.
Ei rimase ferito, e nel giardino,
d’ordine di mio padre, io lo curai;
quivi s’incominciaro,
in un soave amaro
i miei crudeli, e dilettosi guai.

ELISSENA
Fu poco saggio il re,
a fidar le tue nevi in mano al foco.

STATIRA
Anz’egli fu prudente,
a sublimar queste mie luci al sole.

ELISSENA
Dario sa queste pratiche?

STATIRA
Ei non ne tien notizia.

ELISSENA
Passò l’arabo re teco i confini,
bella, se tu m’intendi?

FLORALBA
Ahi, qui consiste il punto.

STATIRA
No, che la sua modestia
appena ardì di supplicare un bacio.

FLORALBA
Manco male, io respiro.

ELISSENA
Dunque egli è il re de’ semplici,
e non il re di Arabia.

FLORALBA
Io, che son donna e giungo agl’anni cento,
lontana da pruriti, e pizzicori,
sentendo questi lascivetti amori,
mi stransustanzio in un maschil talento.
Ma vedi, il re che adori,
a noi rivolge i passi,
sentirò pur le dolci melodie,
e starò in disparte con gli occhi bassi.

Scena quattordicesima
Cloridaspe. Statira. Elissena.

[Duetto]

CLORIDASPE
Pria, che dal re s’aduni,
il consiglio di guerra,
a te dell’alma mia, pace diletta,
ritornar ho voluto, e ber con gl’occhi
l’immagine adorata,
che a far ciel, dove splende, è destinata.
Come la notte oscura
spira la vita della luce in grembo,
ed è dell’ombre un bel feretro l’alba,
così ne’ tuoi begl’occhi,
epicicli, cor mio, d’empireo lume
ogni mestizia mia,
ferita da splendor, more in istante,
di bellezza sì cara, io vivo amante.

STATIRA
Improvviso, amoroso, e ogn’or più caro
mi giunge il tuo ritorno,
da te a penar felicemente imparo.
Nel cerchio al viso tuo splende il mio giorno,
senza di te il cor mio,
in cecità languisce,
al tuo sparir ogni mio ben svanisce.

STATIRA E CLORIDASPE
Amiamci, e non divida
né i cori, né gli aspetti, o tempo o sorte,
i nostri nomi incida
sui dardi d’Amor, e non temiam di morte;
che in braccio del suo ben, chi sa gioire,
per vite fabbricar forma il morire.

ELISSENA
(Ah cani, ah scelerati, io porto invidia
a’ vostri sollazzevoli peccati.)

STATIRA E CLORIDASPE
Amiamci, e stringa l’alme
gradita indissolubile catena;
s’annodin queste palme,
dolcezza sani, ove ferì la pena,
l’ohimè, che disacerba i guai del petto,
in noi trapassi a dichiarar diletto.

STATIRA
Ecco quel caro amabile sembiante,
ch’è delizia a quest’animo infiammato;
qui d’amorosa ambrosia inebriato,
più sempre ha sete il mio desire amante.

CLORIDASPE
Ecco lo stral divin, ch’il cor m’ha ucciso,
di natura, e d’Amor, ecco il portento,
ecco de’ cieli il glorioso stento,
che sudò meraviglie in quel bel viso.
Torno al re…

STATIRA
Non partir.

CLORIDASPE
Vivo in te…

STATIRA
Vo a morir.

STATIRA E CLORIDASPE
Dolorosa partita,
in un sospiro epiloghi la vita.

Scena quindicesima
Floralba.

[Recitativo]
Chi mai sentì nell’amorosa sorte
stravaganza maggiore?
Per un secreto amore,
la gelosia mi vuol condurre a morte.
Sproporzione infinita
ha il mio mal co’ rimedi.
S’arrosisce il pensiero, e si spaventa,
d’esser tant’alto asceso.
E pure, oh stelle, oh dio,
vo lusingando il precipizio mio.
Un non so che d’incognito, e profondo
mi lampeggia nell’alma,
odo uno spirto che nel cor mi dice:
«Spera, ardita Floralba,
tosto sarai felice.»
Andrò ferma al diadema, ancella al regno?
Viltà, si cangerà con maestà?
Fissa malenconia,
ramo non sei, ma tronco di pazzia.
Chi dicesse a la polve, «un uom farai»,
riderebbe la polve,
di proposta sì strana;
pur la polve s’incarna, e al fin si umana.
Più differenza è da la sabbia all’uomo,
che dal servo al regnante;
sii sofistico amor quanto tu vuoi,
de’ contrari al dispetto, io vivo amante.
Giardiniere vezzosette,
che di rose, e violette,
coronate il biondo crin,
col bel piede peregrin,
che non move un passo in fallo
incominciate un dilettoso ballo.

Atto secondo

Scena prima
Città.
Dario. Cloridaspe. Brimonte.

[Recitativo]

DARIO
Pronto eseguir delle consulte è il frutto,
perché oziosa man nuoce al pensiero:
chi tra il dir, e l’oprar tempo frappone,
i casi tenta, e provoca i perigli;
che un solo istante semina accidenti,
e dissipa i disegni, e guasta l’opre.
Si getti un ponte su l’Eufrate, e vada
un esercito intero,
per la nascosta valle,
ad aggredir l’armeno,
da’ fianchi, e da le spalle.
Tu va’, forte Brimonte,
con le tue truppe ad assaltarlo a fronte.

CLORIDASPE
L’impeto da più parti in giro armato
cinga il nemico a lo spuntar dell’alba,
all’or ch’il sonno a le palpebre umane,
tende insidie soavi, e le sorprende.
Con fatica minor le regie spade,
e a minor costo la vittoria avranno.

BRIMONTE
Vado a mercar decoro, e in nome eterno
a permutar la momentanea vita,
o della Persia invitta, alto monarca.
Vo a cimentar la povertà del merto,
dell’ossequio la gloria è mia ricchezza;
ma perché spesse volte,
tra capi al tuo voler subordinati,
gara di precedenza,
idra perversa di furor discorde,
precipita del principe i disegni;
e l’ambizion privata
pestilenza degl’animi ventosi,
quel, ch’è pubblico ben calca, e distrugge;
dammi titolo, e modo,
che purghi umori, e che puntigli escluda.
Altrimenti il nemico
profitterà delle discordie nostre,
e di Persia i difetti,
fabbri saran delle vittorie armene;
pondera ben, signor, queste ragioni,
e a me permetti liberi i sermoni.

DARIO
I diademi, i scettri,
che non voglion tragedie,
fingono gl’impotenti;
conosco i delinquenti,
dissimulo i delitti:
castigar tutti è un spopolar il regno,
punir nessuno è un fomentar le colpe;
la via di mezzo, che i rigori adopra,
sol contro a pochi è il pessimo de’ mali:
il punito m’ha in odio,
perché agl’altri perdono,
l’impunito mi sprezza, perché stima
ch’io non osi punirlo. Il ciel m’aiuti.
Oggi crescendo raggi al tuo decoro
te, nobile Brimonte,
comandante supremo, io qui dichiaro;
il tuo merito insigne,
con caratteri d’oro
a te medesmo estende alta patente;
la battaglia all’armeno omai presenta,
le voci mie qualifica, e sostenta.

Scena seconda
Messo. Dario. Cloridaspe. Brimonte.

MESSO
Signor, dal campo io vengo,
novelle funestissime t’arreco:
il re d’Armenia, tuo crudel nemico,
ha diviso le forze: e tolte in mezzo
le tue genti migliori,
n’ha fatto strage tal, ch’il ciel ne piange.
Signor, manda soccorso,
a salvar quel che resta; acciò l’armeno,
per tutto dove il grand’Eufrate bagna,
non rimanga padron della campagna.

DARIO
Non si può più versar ne’ dubbi. Giove
s’è dichiarato armeno.
Già son partiti i tutelari numi,
che fur sostegni a questo impero: il fato
provo inimico aperto,
l’armeno col destin van di concerto.
Come, prode guerrier, ti stilla il sangue?

MESSO
Del ferro ostil m’arrivò un colpo, io mostro
del cor la fé nelle trafitte vene.

DARIO
Questa gioia, ch’è pompa alla mia mano,
sia rimarco d’onore alla tua destra;
premio a virtù s’unisca,
le tue ferite il guiderdon guarisca.

CLORIDASPE
Concedimi, signor, ch’armato io voli
in soccorso de’ tuoi con le mie genti;
il mio genio, il mio debito mi chiama,
avrà dell’opre mie, cura la fama.

DARIO
Vanne: sia mia ventura,
l’ardir, l’ardor, che mostri,
nel salvarmi da barbari, e da mostri.

BRIMONTE
Il comando supremo a me donato,
eccettua, alto signor, la tua persona.

DARIO
Tua modestia ti onora;
questo ceder t’innalza,
e rispetto sì bel t’accresce il merto.

CLORIDASPE
Nel servirti, signor, godo esser primo;
godran le mie ferite ambiziose,
quest’anzianità; sarà il mio sangue
foriero a la vittoria; e se morissi,
meritarò dall’inimico applausi;
e sarà gloria del tuo nome invitto,
che la mia morte avventurata, ascenda
anco dell’oste a conseguir le lodi.

DARIO
Cessin gl’auguri mesti; in mezzo al cielo
sia preparato da propizie stelle
il sito a la fortuna.
Andate: vi accompagno, vi prevengo,
con augurar felice. I vostri brandi,
sian destini di morte,
compassi di sepolcro,
ordigni di ruina a chi ci insulta.
Fiorirà, mercé vostra, questo scettro,
pace a me, fama a voi, decoro al regno,
nell’opre vostre gareggiare io veggo,
brava spada, gran sorte, accorto ingegno.

Scena terza
Floralba.

[Aria]
Cresce il foco, avvampa il core;
ahi fortuna, che farò?
Io no ‘l so:
nelle lagrime mie sommergo Amore.
Stelle perfide, che mi diedero
un affetto per inferno,
tal governo
fan di me,
che la stessa pietà,
nel vedermi, ed udirmi,
singulti non ha più per compatirmi.
Rivi limpidi, gorghi rapidi,
che al giardin nutrite i fiori
degl’amori,
chiusi in me,
deh, vi tocchi pietà,
con le vostre onde pure,
piaciavi sussurrar le mie sventure.
Da questo bel giardin, partire io voglio,
getti il caso a le sorti il viver mio,
sotto altro cielo consolar sper’io,
del combattuto seno, il rio cordoglio.
Il giocator cangiando carte, e sito,
prende talor della fortuna i crini,
chi sa, che ciel cangiato non destini,
amorosa salute al cor ferito.

Scena quarta
Vaffrino. Nicarco. Ermosilla.

VAFFRINO
Questo è il boschetto ameno,
de’ platani, ove disse
di trovarsi Ermosilla.

NICARCO
Vedila di lontan, ch’a noi se n’ viene.
Mira l’andar, ch’abbonda in leggiadria,
e ‘l portamento altero,
che lussureggia vezzi, e dardi scocca.
Guarda quella avvenenza peregrina,
osserva, come il grazioso piede,
rose crea, fiori stampa, ove cammina.

VAFFRINO
(Che nascerebbe poi,
là dove ella applicasse
delle labbra rosate un dolce succhìo?
Po’ far, che no ‘l vo’ dir, ma quasi il dissi.
Mira di quelle guancie, le fossette,
dove Amore nascosto, notte e dì,
con lo strale fa all’alme, il chi va lì.
O Giove, o ciel, perché punir gl’errori
de’ cori innamorati,
se son sì belli, e amabili i peccati?)

NICARCO
Che farnetichi e mormori, Vaffrino?

VAFFRINO
Dicevo, che non so, dirollo poi,
dirollo tra me stesso,
mi distempero tutto, e mi dileguo,
a quel bel viso appresso.

NICARCO
Ermosilla, un tuo sguardo,
m’è venuto a sfidare a morte il core;
con un raggio omicida,
svenò mia libertà, ferì la vita,
che supplica pietà, mercede grida.

ERMOSILLA
Piaccio a me stessa, perché piaccio a te,
e l’amor tuo Nicarco,
di superbia mi tenta.
Pecco di pretensione; e in uno istante,
o gradita cagion de’ falli miei,
il mio misfatto, e la mia gloria sei.

NICARCO
Beato il dì, che queste luci apersi,
per ricever nel petto
un così caro, ed adorato oggetto.

ERMOSILLA
Se m’obblighi tua fede,
e prometti eseguire un mio pensiero,
io verrò teco in abito virile,
tua compagna sarò, guerrier gentile.
Che Vaffrin no ‘l ridica.

VAFFRINO
Il tutto ho già obliato,
ferro, foco, tormento,
non mi trarrà da queste fauci un fiato,
non che per voi nocivo, un solo accento.
O destra mano, a te, cortese, e pia
traerà svaporar, l’angoscia mia.

ERMOSILLA
Vanne, ti seguirò, Nicarco mio,
disponi l’alma a’ segnalati impieghi,
assuefa’ te stesso,
a favorir di questo core i preghi.

NICARCO
Di me medesimo io diverrò maggiore,
per arrivar de’ tuoi comandi al merto.

Scena quinta
Ermosilla.
Ira, infiammato affetto,
vindice dell’onore,
ti lusingo con viscere ferventi,
per satollar di questo cor le brame.
Un arabo mi esclude?
A colpi di vergogna,
la mia grand’alma è diventata incude?
Son percosso, e non nasce,
da le percosse mie,
riverbero mortale,
che il percussore esanimi, ed opprima?
Ascolto i tuoi protesti,
Nilo, che irrighi di mio padre il regno;
macchie d’infamia l’onda tua non lava;
troverà la vendetta il vero bagno,
che abolirà della mia fronte i nei.
Ermosilla rimanga in questi arnesi,
sgraverassi Usiman da gl’altri pesi.

[Aria]
Non parto io no, bella crudel, da te,
tu t’involi e ti rapisci a me.
Resta qui la mia fé,
ma giro altrove il piè,
empia, sai tu perché,
per ferir, e svenar l’arabo re.
Non parto io no, bella crudel, da te,
tu t’involi e ti rapisci a me.
Fama, che per gl’orecchi al cor m’entrò,
in Egitto, di te m’innamorò.
Il cor, che t’adorò,
a servirti volò;
or più speme non ho,
ed all’angoscie in grembo io morirò.
Fama, che per gl’orecchi al cor m’entrò,
in Egitto, di te m’innamorò.
Un tuo martire, o sorte, al suo fin va,
forse Statira un dì, mi piangerà.
Se fera crudeltà,
di ben nudato mi ha,
a la mia povertà,
elemosina, o stelle, o ciel pietà.
Un tuo martire, o sorte, al suo fin va,
forse Statira un dì, mi piangerà.

Scena sesta
Statira. Elissena.

[Recitativo]

STATIRA
Cercati del giardin tutti i recessi,
non si trova Ermosilla, né Floralba.

ELISSENA
Saran forse elle uscite,
senza che tu il permetti?

STATIRA
Poteano uscir a lor bell’agio: mai
non le ho impedite. Or mira,
son questi d’Ermosilla e vesti, e veli.

ELISSENA
Se alcun l’avrà rapita,
l’avrà voluta ignuda,
che sogliono le vesti,
coprir magagne, e mascherar difetti.
Spesso velano i veli,
spalle ineguali, e montuose terga:
massime a questi tempi fortunati,
che il liscio delle carni,
e ‘l crine infarinato,
tante bugie conduce sul mercato.
Sono dell’ambra stessa,
gl’odori condannati,
d’acconcie bocche a profumare i fiati.
Così non fosse il vero,
che l’amante tal’ora,
mentre crede baciar labbra gentili,
lambisce fiele, ed un sepolcro odora.

STATIRA
Ermosilla qui giunse di ventura,
Floralba, tu mi consegnasti.

ELISSENA
È vero.
Oh Floralba, Floralba,
se sapesti di te, quel che so io.

STATIRA
Che sai tu di Floralba?

ELISSENA
A tempo lo saprai. Qui Dario viene.

Scena settima
Dario. Cloridaspe. Statira. Elissena.

DARIO
Figlia, d’Armenia il re,
circonvallata ha questa patria omai.
Il re d’Arabia, a cumulare avvezzo
benefici immortali,
risolve andar con la fulminea spada,
a difendere te, me stesso e ‘l regno.
Pria, ch’ei copra con l’elmo il bel sembiante,
a te viene in quest’ora,
e ‘l tuo giardino un’altra volta onora.

CLORIDASPE
Principessa reale,
se in ciel la lattea via,
ch’è un gemmaio di stelle,
forma il sentier, ch’al sommo Giove adduce,
di virtute, e di grazie l’armonia,
con mistura divina, in te concorde,
forma la via ch’al paradiso arriva.
Tale ti riverisco, e in grazia chiedo
d’amor, d’onore un segno
che mi fortuni l’armi,
mentre le impugno, a custodirti il regno.
Da tanta grazia immortalato, io spero,
la vita a me serbar, a te l’impero.

STATIRA
Prefigura trionfi, o re cortese,
sopra il tuo brando, della Persia il trono.
Se per legge fatale
dal nembo d’oro delle stelle piove
necessità a’ mortali,
la insigne tua virtù domina gl’astri.
Questa vermiglia piuma, che io ti dono,
sovra l’elmo fatal riponerai,
a vincer va’. Già sento
di mille trombe, e timpani i clangori,
de’ gesti tuoi, preconizzar gl’onori.

CLORIDASPE
Bella Statira, a dio.

STATIRA
A dio, re del cor mio.

ELISSENA
Trangugia le parole i sensi doma,
che per mia fé ti stracciarò la chioma.

CLORIDASPE
Dove non può la lingua, il gesto parla.

STATIRA
Con amorosa cifra,
intenda il tuo pensier quello che scrive,
con i sospir, chi per te solo vive.

[Aria]
Va’ singolar campion,
di Persia la ragion tratta col brando;
occhio fulminator,
del braccio feritor prevenga i colpi;
da mano così illustre, e così forte,
imparerà felicità la morte.
Come tua man vital
darà colpo mortal, re del cor mio?
Chi per te caderà,
sul morir troverà lieto il passaggio,
e sotto al grandinar d’aspre ferite,
t’udirai ringraziar,
dal mancar, dal spirar di mille vite.

Scena ottava
Cloridaspe.
Statira, oh dio, partì,
sol bacerò la imago,
di quel sembiante vago,
che tra quest’aure luminosa uscì.
Una lacrima dia,
concedo a lei per la partenza mia.
Vattene, o mio sospir,
vapor della mia fede;
umìliati al bel piede,
bacialo e dì, che amaro è il mio partir.
Statira, idolo mio,
in te non entri a’ danni miei l’oblio.

Scena nona
Nicarco. Ermosilla. Vaffrino.

[Recitativo]

NICARCO
Si parte or or con la vanguardia il re;
seguitiamlo, Ermosilla,
ma dimmi apertamente il tuo pensiero.

ERMOSILLA
Prometti d’ubbedirmi.

NICARCO
Vadan la vita, e le fortune, e cada
sopra la casa mia
di precipizi un monte,
per servirti, o mia bella,
le voglie ho più che pronte.
Tenti di codardia
un cor che t’idolatra?

ERMOSILLA
Voglio che uccidi il re.

NICARCO
Torna a dir, non t’intendo.

ERMOSILLA
Voglio che uccidi il re.

NICARCO
Tu vuoi ch’uccida il re?

ERMOSILLA
Sì, sei sordo, o t’infingi?

NICARCO
Chi, Dario, o Cloridaspe?

ERMOSILLA
Cloridaspe.

NICARCO
Il mio re?
L’udito mio rifugge
dall’ascoltar, si inorridisce il core,
s’arretra l’alma, ed il pensier vacilla;
l’immaginare in superficie il caso,
l’istantaneo fantasma è reo di morte.
Solo a pronunciar tanto misfatto,
sacrilega è la lingua, il fiato è in colpa,
di lesa maestà col dirlo io pecco.
Ma che offesa mortal da te ricevo
per dimanda sì indegna?
Traditor ti rassembro?
Ribelle mi supponi?
Mentono le tue false opinioni.
Se tu non fossi donna,
danno dell’uomo, e non del cielo dono,
risponderei con questo nobil ferro,
ch’a ruggine di infamia non soccombe;
l’amor che ti portai, converto in odio,
e l’error mio col pentimento io lavo;
vendi a qualche carnefice te stessa;
aborrisco, rifuggo,
diletti atroci, e manigoldi amplessi:
cerca un genio fellon, per tali eccessi.

ERMOSILLA
Scuso l’ardor, perché non sai chi io sia.

NICARCO
Sii pur quel che tu vuoi,
sono iniqui, ed indegni i sensi tuoi.

ERMOSILLA
Sfodra quel ferro.

NICARCO
Io no, contro una donna,
non son avvezzo ad avvilir la spada;
contro il debole sesso, arma impugnata
brutta il decoro al bellicoso nome;
femmina vinta, al vincitor è scorno.

ERMOSILLA
Vilissimo plebeo, schiavo arricchito,
vapor di fango sollevato a caso,
contrapposto all’onor, onta dell’armi,
osi così parlarmi? Apprendi, impara
co’ principi a trattar, di cui si deve,
riverir l’ombra, idolatrare il cenno.
Nessun merto già mai, nessun destino,
conciliò al tuo fin sì degna sorte,
da coronata mano aver la morte.

VAFFRINO
Di vostra grazia date o sommi dèi
un picciol donativo a’ casi miei.

ERMOSILLA
Vaffrin sappi tacere.

VAFFRINO
Tagliatemi la lingua,
serenissime mani.
Così sarai del mio tacer sicuro.
Ma caverai da me poco costrutto,
vertigini patisco, e tremo tutto.

ERMOSILLA
Veggo genti venir, scostati alquanto.

VAFFRINO
Andrò da questo, e da quell’altro canto.

Scena decima
Ermosilla.
Mente ondeggia, vicine
sono le sirti, e i naufragi miei.
Di me medesmo or mai,
disperate son l’opre, ed i pensieri.
Andiamo al campo: no,
se non mi scoprirò,
mi si faranno incontro ingiurie, e danni:
se chi io mi son dirò,
sarò sospetto introduttor d’inganni.
Ahi Statira, ahi Statira,
tue bellezze divine,
m’hanno condotto a periglioso fine.
Nicarco, estinto già, non può accusarmi;
Vaffrin tacerà: sì,
ma dove, e come viverò così?

[Aria]
Menfi, mia patria, regno,
padre, madre, ove sete?
Deh le mie amaritudini piangete;
lunge da voi per volontario esilio,
son mendico di core, e di consiglio.
Sconosciuto, solingo,
dovunque volgo i passi,
in fonti di pietà converto i sassi.
Ciel, protettor de’ principi, a te solo
fa suo ricorso un disperato duolo.

Scena undicesima
Floralba, Ermosilla, Vaffrino.

[Recitativo e Aria]

FLORALBA
Ecco Ermosilla in abito virile;
ove si va, compagna,
a sfidare gli eserciti in campagna?

ERMOSILLA
Floralba, chi t’indusse
a lasciare il giardino?
Statira che dirà,
quando né te, né me ritroverà?

FLORALBA
Un destino insolente,
agita la mia fuga.

ERMOSILLA
Una stella inclemente
persegue la mia pace: al campo io vado.

FLORALBA
Ti seguirò, se vuoi.

ERMOSILLA
Andiam; Vaffrino.

VAFFRINO
Io volo
a servirti, signor, signora, ohimè
ho la testa fra piè, corro, ove vuoi.

ERMOSILLA
Taciturno, e modesto, vien con noi.

[Aria]

VAFFRINO

Deluso giardiniero,
la mia purpurea rosa all’improvviso
invirilita io trovo in un narciso;
Cupido menzognero,
per divertirmi i sospirati amplessi,
trasmuta le nature, e cangia i sessi.
IIº
Pazientar m’è bisogno,
la mia coperta è diventata un velo,
e la mia sfera è divenuta un cielo;
o ch’io deliro, o sogno,
gli stupori confondo, e le parole,
s’è la mia stella trasformata in sole.
IIIº
Voglio stracciar le carte,
che di guadagno ogni speranza è morta,
chiamo a la dritta, e il punto esce alla storta.
Di tue bravure o Marte,
disordinati io provo gl’arsenali,
se su le targhe nascono i pugnali.

Scena dodicesima
Birsante. Tersandro.

[Recitativo]

BIRSANTE
Cercata ho in Libia, e Mauritania tutta,
la Cina, e l’India, infino al Gange ho corsa,
né ho d’Usiman, del re d’Egitto, figlio,
notizia, relazion, memoria alcuna.
Cerco la Persia, e fino ad ora indarno.
Mi saperesti tu,
venerando signore,
portar qualche ragguaglio,
d’Usimano d’Egitto?

TERSANDRO
(Costui certo è una spia.)
Temerario, che ardisci
qui dentro por l’insidioso piede,
che da te si richiede?

BIRSANTE
Nacqui grande in Egitto, e di quel re,
in altri tempi, ambasciator qui fui:
cerco Usiman suo figlio, e spia non sono.
Già Dario a me donò questo rubino,
ove intagliata la sua imago onoro:
mira, e la lingua mordi,
poiché a modestia, il dir, sì male accordi.

TERSANDRO
Riconosco la gemma, e la figura,
perdona a’ miei sospetti,
e me pentito, a te medesimo giura.
Del principe, che cerchi,
né pur minimo avviso dar ti posso;
ma tra ben mille, e mille,
che già poc’ora andaro armati al campo,
forse, ch’egli si cela.

BIRSANTE
Al campo andrò, mi guidi il cielo i passi.

Scena tredicesima
Vaffrino.
Mi manda il mio padrone, o la padrona,
femina, maschio, ermafrodito, e vuole
ch’io ben mi informi se Nicarco è morto;
già lo spogliaro i ladri, e nudo giace.
Io non so dove io vada,
per non errar sentiero, i piè dubbiosi,
informazion dimandano a la strada.

[Aria]
Era pur bella cosa,
se Ermosilla amoreggiando,
nel voler goder la sposa,
faceva ella di rimando.
Accidenti non già strani,
stravaganze dozzinali,
spesse volte i casi umani,
dan di cozzo in cose tali.
Soglion dire i letterati,
più profondi, e più saputi,
questi casi inopinati,
fanno i sposi ben venuti.
Ma se il maschio era nascoso,
fu Statira mal sicura;
nel giardin delizioso
le avrà detta la ventura.
Ma chi è costui, ch’alla mia volta vien?
Della madre natura egli è un sbadiglio,
o d’una quercia è figlio;
o che bella anticaglia,
è un uomo travestito da medaglia.

Scena quattordicesima
Birsante. Vaffrino.

[Recitativo]

BIRSANTE
Sei tu di Persia, o amico?

VAFFRINO
Ti risponda il mio volto.

BIRSANTE
Del tuo volto le tenebre
ti figurano etiope.

VAFFRINO
Etiope son: che chiedi?

BIRSANTE
Mi sapresti dar nova
d’Usimano, ch’è principe d’Egitto?

VAFFRINO
Descrivimi la sua fisionomia.

BIRSANTE
È di comun statura, ha chiome nere,
negri gl’occhi, e vivaci,
di poco eccede il sestodecimo anno:
del bianco mento a la sinistra parte,
minutissimo neo lo contrassegna;
nel destro ciglio ha per caduta un taglio,
ch’è vezzo, e non difetto in quel bel volto.

VAFFRINO
(Costui cerca Ermosilla…)
E chi sei tu che ‘l cerchi?

BIRSANTE
Messo del re è suo padre.

VAFFRINO
E quant’è ch’il tuo principe è perduto?

BIRSANTE
Un anno in circa, e fino all’or fu detto,
ch’in abito mentito di donzella,
ramingava soletto.

VAFFRINO
(Ecco il tutto è svelato:
Ermosilla è Usimano,
largo di spalle, e stretto di cintura,
giovinetto bizzarro a dismisura;
pretensione d’Amor, sopra Statira,
lo fe’ bramar dell’arabo la morte.)
Amico, io non saprei
che dirti d’Usiman, non lo conosco.

BIRSANTE
(Costui sa qualche cosa, e forse il tutto.
Ma ridirlo non osa.)
Se qualche avviso, etiope, mi darai,
questo piropo in regal dono avrai.
Prendi: minimo segno questo sia,
d’egizia cortesia.

VAFFRINO
Ringrazio vostra altezza,
venga ella meco al campo,
e troverà Usimano,
o come splende questa gioia, o dèi,
un atomo cortese,
di vostra grazia indora i giorni miei.

Scena quindicesima
Tersandro, Servo indiano.

TERSANDRO
Che cignetti, che mormori, che stilli,
pappagallo mal dotto, scimmia pazza.

SERVO
Addosso a Nicarco,
ucciso in campagna,
è stata ritrovata
questa bella medaglia.

TERSANDRO
Questa medaglia è di purissimo oro,
con lettere d’arabico idioma.
Intendi arabo, tu?

SERVO
Lascia un poco vedere,
co’ giovinetti miei compagni andando,
alla scola ho imparato
molti linguaggi; l’arabo non mai.
Leggi tu, gran barone,
che delle bestie anco il linguaggio sai.

TERSANDRO
Questa è Lindaura, figlia
d’Orgonte re d’Arabia.
Ma chi uccise Nicarco?

SERVO
Non si sa chi ne fosse interfettore;
chiama qualche indovino
da le prove famose,
che ti farà chiarissime le cose.

TERSANDRO
Qualche regio rimarco,
qualche memoria insigne
si nasconde qui dentro.
Qui sta intagliato ancora
un sigillo reale.
Ma chi ti diè questa medaglia?

SERVO
Addosso
a Nicarco medesimo io la trovai,
quando per carità lo dispogliai.

TERSANDRO
Spogliare i morti è carità?

SERVO
Sta meglio,
e cosa è più morale in ogni conto,
tener vestito un vivo, che un defunto.

TERSANDRO
Orsù vientene in corte, e non partire.

Scena sedicesima
Servo indiano.

[Aria]
In India vo’ tornar, corte non voglio;
questo viso di canape,
m’ha già stordito, con sì lungo imbroglio.
Sempre frodi, sempre inganni
han la corte riempita,
meglio è ber l’acqua di vita,
che tranghiottir, di pane in vece, affanni.
Sempre guerra, sempre sacco,
e diluvio di gabelle,
non cur’io saper novelle,
Bellona, e Marte, è a me, pipa, e tabacco.
Lascio al re, che ci governa,
trionfare in ogni parte,
mio trionfo è nelle carte,
ed il mio padiglione, è una taverna.
Non mi vo’ fare immortale,
col tentar la dubbia sorte,
da la fame avrò la morte,
canterà le mie glorie un ospedale.

Atto terzo

Scena prima
Campo aperto con padiglione e Guardie
Brimonte. Ermosilla, Floralba.

[Recitativo]

BRIMONTE
Sanguinosa vittoria,
allegrezza interrotta,
infelice trionfo. Abbiamo vinto,
ma l’arabo, signor, resta prigione;
troppo osò, troppo ardì, troppo inoltrossi.

ERMOSILLA
O che nuova pietate
va serpendomi al core
verso l’arabo re. L’ira s’ammorza,
compatirlo m’è forza.

BRIMONTE
Che non fe’ Cloridaspe?
Alzò le stragi de’ nemici, e diede
stupor all’armi. E contro l’inimico
portenti praticò, stancò la morte;
sei corsieri morir l’un dopo l’altro
sotto l’eroe feroce, in cui possente
centimano valor battea le schiere.

ERMOSILLA
Usimano, ora è tempo
di castigar te stesso, e in opre insigni,
illustrar l’armi, e meritar colossi.
A cotanto valore
io tesi insidie, e macchinai la morte?
E puote Amor col martellarmi il core
condurmi a esorbitar in tanto eccesso?
Con flagello di glorie
punirò me. Dalle venture genti
sarà esaltato d’Usimano il nome.
Scegli mille pedoni,
ed altrettanti cavalieri, e dona
l’onor a me d’esserne capo; e spera,
da questa spada mia
la libertà dell’arabo: consenti
elogi alla mia morte, e scegli un marmo
che mi sia o statua eccelsa, o tomba vile.

BRIMONTE
E chi sei tu, ch’alla fortuna mostri
sì generose sprezzature? Io vidi
te meraviglie oprar nella battaglia
contro le genti dell’armeno.

ERMOSILLA
Ignoto
avventuriere in questa guerra venni:
bramo ch’un’opra grande
mi palesi quel principe ch’io sono.

BRIMONTE
Teco verrò all’impresa.

ERMOSILLA
Serba il sangue
a periglio maggior; non vo’ compagni,
ma seguaci all’acquisto del prigione.

FLORALBA
È principe costui
che sotto nome d’Ermosilla passa.
O cielo, o dèi, che sento?

BRIMONTE
Vo a far la scelta che da te si brama,
principe invitto, che ti credo tale,
andrai coll’opre a superar la fama.

ERMOSILLA
Nel risoluto core,
già la tromba mi suona,
alto genio gran cose in me ragiona.

Scena seconda
Ermosilla. Floralba. Vaffrino.

ERMOSILLA
(Anima ti dilata
a concepir speranze
di tua grandezza degne. A Cloridaspe
se darò libertà, sì come io spero,
l’obbligo suo ver me sarà tant’alto,
che potrò conseguire
gratitudini immense.
Discoprirò chi son: avrò da lui
cosa maggior di ciò, ch’a lui procuro.)
Vaffrin, come pugnasti?

VAFFRINO
Non mi degnai di tor la spada in mano,
ma la posi tra piedi,
ed alla strada tal ferita io diedi
ch’ella scampò, ma più di lei fuggii.

ERMOSILLA
Floralba, che ti senti?

FLORALBA
A me, che un anno fui,
compagna a te di servitù a Statira,
narra, signor, chi sei,
per non toglier a te gli ossequi miei.

ERMOSILLA
Son Usimano, principe d’Egitto.

VAFFRINO
Un che ha del mago, e tien del cabalista,
ti ricerca, signore,
ed è venuto al campo, per trovarti.

ERMOSILLA
Sarà costui Birsante.
Signor di Meroe, consiglier di stato,
carissimo a mio padre.

VAFFRINO
È un alchimista, un ceffo sciagurato;
va solo. Egli è grand’uomo?
Turpi fisionomie,
rappresentate pur le gran bugie.

ERMOSILLA
Ma chi sei tu Floralba?

FLORALBA
Io non lo so:
o rapita, o venduta,
in Persia son venuta,
Elissena la vecchia m’allevò,
ed a Statira, schiava, mi donò.

ERMOSILLA
Somigli al re d’Arabia.

FLORALBA
Egli ebbe una sorella,
ma fanciulla morì.

ERMOSILLA
Come lo sai?

FLORALBA
Nicarco, il general, così mi disse.

ERMOSILLA
Sta’ meco in compagnia;
Vaffrino a te la raccomando.

VAFFRINO
Meco
ella sempre starà,
sarà dì lei quel che di me sarà.

FLORALBA
Ti obbedirò, signor, ma al re d’Arabia,
adorato da me, vorrei servire.

ERMOSILLA
Ami tu il re d’Arabia?
Principessa tu sei: te ne dà segno
simpatia sì sublime. Il ciel nell’alme
caratterizza alcuni segni. In noi
certi affetti e pensier non sono a caso;
le linee di tua fronte
segnano maestà, regio decoro.
Con un regnante concepir amori?
È mistero di scettro e di corona.

VAFFRINO
Floralba, il cielo te la mandi buona.

Scena terza
Brimonte. Ermosilla. Floralba. Vaffrino.

BRIMONTE
De’ fanti, e cavalier sono le squadre
preparate, signor, a’ cenni tuoi;
poco lunge è il prigion. Vanne felice,
già lieta la fortuna,
prosperi eventi al tuo coraggio indice.

ERMOSILLA
Apparecchia Brimonte
stanza gioconda dell’Arabia al re,
o breve fossa a me.
Floralba mia, Vaffrino astuto, andiamo.

FLORALBA
Ti seguo, signor mio.

VAFFRINO
Andiam, verrò mal volentieri anch’io.

Scena quarta
Spelonca orribile, ov’è prigione il re arabo.
Cloridaspe incatenato.

[Aria]
Al carro trionfale
dell’armeno superbo,
trofeo son divenuto.
Di sangue a costo la mia vita intende
di fortuna infedel l’empie vicende.
Discoronato re,
con le membra consumo le catene;
ogni mia luce in questo dì è sparita,
spirò la libertà, finì la vita.
Aria, patria comune,
de gli umani respiri,
cortese, ma invisibile elemento,
grazia di pochi fiati ancor ti chiedo,
e da’ favori tuoi prendo congedo.
Arabia, regno mio,
non mi serbo più in te ragione alcuna;
di te, poiché s’estingue il sangue mio,
instituisco erede la fortuna;
resta nella memoria di Statira,
fortunato mio nome,
io sarò tosto dal tiranno ucciso,
tu avrai cella felice in paradiso.
Mi riconcentro nell’abisso mio,
a dio, Statira…

Scena quinta
Campagna d’arme con antro.
Floralba. Vaffrino.

FLORALBA
Oh che stragi, oh che morti, oh che ruine!
Usimano, ch’è un fulmine di Marte,
alle genti d’Arabia ha dato; oh quali
eccessi di valor, che i sensi eccede,
oprò l’acuta, e folgorante spada.

VAFFRINO
Più ch’io servo alla guerra,
più pauroso divenir mi sento:
che cos’è la bravura?
Solamente io conosco la paura.

FLORALBA
Voglia il ciel, voglia il fato,
che, come il re d’Arabia
è rimasto prigione,
non vi rimanga ancora
Usiman. Elissena era pur meglio,
era pur meglio avvelenarmi. Io vivo,
né so più a chi; né so chi son; oh dèi,
di pietade una stilla
discenda a consolar i dolor miei.

VAFFRINO
Sento d’armi rumor; veggo Usimano
che torna vincitore.

FLORALBA
Veggo bandiere armene a terra stese,
sento gridi giocondi,
rotto è ‘l nemico; e la vittoria è certa,
non veggo Cloridaspe, è forse estinto?
O me infelice, o misera, che giova
se Cloridaspe è morto, l’aver vinto?

Scena sesta
Usimano. Floralba. Brimonte. Vaffrino.

ERMOSILLA
Usimano
Son ferito nel petto,
pur questo braccio è offeso.
Stringimi la ferita,
Floralba mia gradita.

BRIMONTE
Principe invitto, all’opre tue non manca
altro che paragon, onde il tuo nome
nell’arte militar sovrasta a tutti.
E noi felici siamo
perché godiam di tua virtute i frutti.

FLORALBA
Ecco servito sei,
ti preservaro i dèi.

VAFFRINO
Me non si son degnati,
di preservar i numi,
mi preservò la fuga. O sommi dèi,
vivo molto obbligato a’ piedi miei.

ERMOSILLA
Usimano
Forti commilitoni,
l’armi del re di Persia
impugnate da voi, da me assistite,
le insolenze nemiche han già punite;
questo è l’antro profondo
qui in catena Cloridaspe giace.
Ecco, squallido egli esce, e a noi se ‘n viene,
piango le sue, piango le mie catene.

Scena settima
Usimano. Cloridaspe. Floralba. Vaffrino.

[Duetto]

ERMOSILLA
Usimano

Ermosilla già fui: servendo invano,
Statira nel giardin l’ore perdei;
or lo strano girar de’ casi miei
per liberarti, o re, mi fa Usimano.
IIº
La vita a te, la libertà perduta
e lo scettro, e la spada or io ridono
delle tre Arabie il diadema, il trono,
questo sangue, ch’io spargo, a te tributa.

CLORIDASPE

Usiman, che può dir un, che rinasce,
a chi la libertà, l’alma gli rende?
Tua cortesia, sé stessa sola intende,
e delle glorie sue s’adorna, e pasce.
IIº
Rivoluzion d’impenetrati cieli,
l’aspetto forma a tali avvenimenti,
tu riunisci in me nuovi elementi,
e gran prodigi all’alma mia riveli.

[Recitativo]
Grazie rendi a te stesso,
che con opre immortali
le lingue opprimi, ed ammutisci i detti,
e da me liberato,
e, tua mercé rinato,
chiedi la vita, e ‘l regno,
che tu ne sei ben degno.

ERMOSILLA
Usimano
Vivi a te stesso, e solo impera al regno,
chiedo solo Statira;
or tutte le ragion, che tieni in lei,
cedi, ti prego, a’ desideri miei.

CLORIDASPE
Ahi, non immaginata amaritudine,
ahi contrasto d’amor, e gratitudine.
L’anima, che tu m’hai restituita,
come cosa ch’è tua, toglier mi puoi.
Lascia, ch’un mio sospiro,
possa al mio cor annunziar la morte.
Dà tempo alla fortuna,
che m’insegni a patir tanto dolore,
stupisci, che un vivente
lusinghi il suo sepolcro,
e a sua sostanza acceleri le polvi.
Cedo Statira a te,
e me medesimo di Statira io privo,
e nel dirti così
a me stesso già estinto io sopravvivo?
S’a le miserie umane,
empio destin non lacrimasti mai,
l’aspro rigor di tue durezze or frangi,
e per prodigio, a questa angoscia piangi.

ERMOSILLA
Usimano
Magnanimo, signore,
una così immortale cortesia,
in annali stellati,
da man celeste registrata fia.

FLORALBA
Risorgete speranze,
Statira è d’Usimano.

VAFFRINO
Sposi non mancheranno ancora a te;
ma s’Ermosilla è maschio,
deh dimmi Amore, e che sarà di me?
Andiamo a Dario omai.

Scena ottava
Birsante. Floralba. Vaffrino.

BIRSANTE
Damigella gentile,
se il cielo i voti tuoi renda felici,
dimmi se qui d’intorno
udisti nominar del re d’Egitto
il figliolo Usimano.

FLORALBA
Se per questo sentier tu t’incammini,
Usiman troverai.

BIRSANTE
Dopo un anno ch’io il cerco,
tempo sarà che lo ritrovi omai.

VAFFRINO
Il tuo padrone, per sciagura mia,
di damigella s’è cangiato in uomo.
S’ei tornasse una donna,
come sarei felice.

BIRSANTE
Faceto moro, se in Egitto vieni,
farò che il re ti faccia protomimo.

VAFFRINO
Protomimo un mio pari?

FLORALBA
Che vuol dir protomimo?

BIRSANTE
Il primo promotor del riso altrui,
che mantiene gioconde le persone.

VAFFRINO
Di’ alla prima buffone! Orsù, partiamo.

Scena nona
Giardin regio.
Statira. Elissena.

[Aria]

STATIRA
Lontananza,
la notomia di questo cor tu fai.
La speranza,
per colpa tua si va struggendo in guai;
colpo di morte men acuto punge,
che stral d’amor, quando il suo bene è lunge.
Oh dio, che fa, che pensa
il mio signore, e re,
qual accidente spande
sopra di lui la sorte?
Ohimè, fors’è ferito,
forse è prigion, forse è vicino a morte.
Lontananza,
la notomia di questo cor tu fai.
La speranza,
per colpa tua si va struggendo in guai;
colpo di morte men acuto punge,
che stral d’amor, quando il suo bene è lunge.
Pallido attenuato,
in fantasia mi sta,
quell’amato sembiante,
mi par vedere afflitto;
ohimè, forse languisce,
forse non ha soccorso, ed è trafitto.

[Recitativo]

ELISSENA
L’arte d’indovinar la verità,
consiste in pensar male;
ma però ti consola,
che donnesca bellezza e leggiadria,
anco ridotta agli ultimi partiti,
non può patir penuria di mariti.
Se l’arabo ti manca, troverai
cento competitori,
vedrai dal tuo bel volto,
a mille a mille sfavillar gli amori.

STATIRA
Se perdo Cloridaspe,
sacrare io voglio mia verginità,
a Pallade, a Diana;
e professare eterna castità.

ELISSENA
L’elleboro è potente medicina,
per sanar questo male, o figlia mia;
tu patisci un principio di pazzia.

[Aria]
Quante son le donzelle,
che per forza son tali?
Fresche, leggiadre, e belle,
ma disperate vergini vestali,
nel traffico d’Amor merci fallite,
in prurigine eterna seppellite.
Non rifiutar la mensa,
di cibi saporiti,
per cercare in dispensa
i rimasugli fracidi e sciapiti.
È di noi donne l’instituto antico:
uccellar destramente al beccafico.

[Recitativo]

STATIRA
Andiam verso la porta,
ch’al palagio real porge l’uscita;
manderem per sapere,
se avviso alcuno s’ha della mia vita.

ELISSENA
Come a te piace; andiamo.

Scena decima
Bosco tutto.
Cloridaspe.
(solitudine)
Non son più Cloridaspe,
son l’odio di me stesso. Ira del cielo,
la pena son del sacrilegio mio;
il beneficio altrui,
mi sottragge da morte,
io divenuto a me coltel, veneno,
l’anima, o dio, mi sviscero dal seno.
Liberator spietato,
benefattor dannoso,
fautor omicida,
medico pestilente,
in calice d’amara cortesia,
sotto color d’una felice sorte,
con un sorso infernal bevo la morte;
mentre professo immacolata fede
solo a colei, che a sue bellezze indìa,
tirannamente resto
sforzato a rinnegar l’anima mia.
Cedei Statira? O dèi, svenai me stesso:
io trafissi? io distrussi? io sviscerai
il mio cor, la mia vita, il sangue mio?
Di sì penosi guai l’autor son io?
Teco destin crudel, teco la voglio,
tu, tu mi brami oppresso,
ma fai che da me stesso,
vien la necessità del mio cordoglio,
mentre m’incalzi a tormentoso fine,
mi formi il promotor di mie rovine;
infausta mia corona,
delle tre Arabie imperatrice altera,
lunge dal capo mio vanne raminga,
di tutti i giorni miei quest’è la sera.
Statira a dio, questa giornata oscura
chiuderà il varco al mio respiro indegno
se in Persia, o cara, ho trascurato il regno,
dammi in Persia, o mio ben, la sepoltura.

Scena undicesima
Birsante. Usimano.

BIRSANTE
No, che non è da principe quest’atto,
d’aspra necessità con l’armi acute
violentar altrui?
Tu privi il re d’Arabia
della pretesa, ed adorata moglie?
Dario che ne dirà?
Vorrà un egizio in Persia,
così alla cieca successor del regno?
Statira, che farà?
Abolirà in istante
l’amor di Cloridaspe?
Seminari di lite
son le nozze rapite.
Matrimoni sforzati
son inferni incarnati.
Torno or ora in Egitto
a portar quest’annuncio al rege afflitto.

ERMOSILLA
Usimano
Ferma, Birsante, ferma;
le mie ragioni ascolta.

BIRSANTE
Non parlar di ragioni,
i principi padroni della forza
non badano a ragion, quando si tratta
serbar il proprio, o l’acquistar l’altrui.
Ma nell’altre occorrenze
delle sue proprie leggi il prence è servo,
il mal impera a’ popoli soggetti
chi non sa comandar a’ propri affetti.
Altro è pubblico scettro,
altro è voglia privata.
Non metter la corona,
su la testa al capriccio,
principe forestiero in casa altrui.
Urta in secche infelici,
in tempeste crudeli, in duri scogli,
chi corsaro si fa dell’altrui mogli.

ERMOSILLA
Usimano
Senza Statira io respirar non posso.

BIRSANTE
Impossibili, vani, e impropri a’ grandi.

ERMOSILLA
Usimano
Inimico sarò della mia vita?

BIRSANTE
Chi ha senno al capo, non ha strali al core.

ERMOSILLA
Usimano
Avrò gettato i passi, il tempo, e ‘l sangue?

BIRSANTE
Per far giustizia, ogni dispendio è poco.

ERMOSILLA
Usimano
Amor appresso te non trova scusa?

BIRSANTE
Ragion appresso te non trova loco?

ERMOSILLA
Usimano
Vicine ho le mie glorie.

BIRSANTE
Anzi, i tuoi precipizi.

ERMOSILLA
Usimano
Il tempo aggiusta, appiana, opera tutto.

BIRSANTE
L’infamia può bruttar secoli, e tempi,
adempisci i tuoi sensi, io partir voglio.

ERMOSILLA
Usimano
Non partir, cedo a te: farò a tuo modo.

BIRSANTE
Vattene a Cloridaspe,
ridonagli Statira e in questi boschi
rimanga il fatto seppellito, e muto.

ERMOSILLA
Usimano
Floralba a poco a poco a morte vai.

BIRSANTE
Veggo del vero lume aperti i rai.
Ecco il re; nascondiamci.

Scena dodicesima
Birsante. Usimano. Cloridaspe.

CLORIDASPE
(solitudine)
Romitaggio solingo,
casa disabitata a re mendico,
in te del viver mio fo punto all’ore,
e non merta pietà
chi con le proprie mani s’è tratto il core,
e dispiacer non dée la cecità,
a chi con sensi sconsigliati, e sciocchi,
per donarli ad altrui, si leva gli occhi.

BIRSANTE
Vedi là l’angoscioso. Adesso è il tempo,
d’immortalar te stesso,
alza i pensieri,
all’auge delle glorie ecco il trionfo.
Sani omai nel tuo core,
balsamo di ragion, piaga d’Amore.

ERMOSILLA
Usimano
Ch’io rifiuti Statira?
Che all’altar di quel volto
faccia ribelli i sacrifici miei?

BIRSANTE
Serva della viltà, l’anima tua sarà;
chi da virtù non tiene il senso domo,
sente di plebe, e non arriva all’uomo.

ERMOSILLA
Usimano
Scendesti così tosto,
alto signor da maestà di re?
Te stesso cerco in te,
ma tu già peregrin dal proprio volto
ti se’ all’angoscie, e allo squallor rivolto;
Cloridaspe gran re?
Deh rivolgiti a me.

CLORIDASPE
Fui Cloridaspe sì,
ma tramontò il mio dì.
E quel che fu, non è
da’ numeri bandito,
ne gli abissi del nulla è seppellito.

ERMOSILLA
Usimano
Signor, l’essere un re
è il più piccolo pregio, che sia in te;
tutti i titoli eccede tua virtù,
tua grandezza consiste in esser tu.
Liberale cedesti
Statira ad Usimano.
Trionfar tu sapesti
d’un affetto fatale, e sovrumano.
Or io Statira a te cedo, e ridòno,
illibata donzella,
unica principessa.
In que’ begl’occhi d’ogni luce adorni,
con beato seren perpetua i giorni.

CLORIDASPE
Nel cederti Statira,
cedei la vita delle parche in mano,
or me stesso perduto appena trovo
in un esser confuso,
di cenere gelato, e d’ombra errante,
incapace di bene
con moribondo piè stampo le arene.

ERMOSILLA
Usimano
Accetta quella gemma,
che all’aurea tua virtù produsse Amore;
non ricusar da principe obbligato,
sì prezioso dono.
Statira è tua: se morto sei, rinasci
a paradiso offerto,
e con la reggia, omai cangia il deserto.

CLORIDASPE
Dammi la destra, o amico,
sostenetemi entrambi,
e del rinascer mio,
a giornate novelle,
giurate pur la verità alle stelle.
Giove al nascer mi diè sola una vita.
Usimano, da te ne ho avute due:
una dalla tua spada,
l’altra dal tuo magnanimo consenso,
che mi rende Statira;
incolpa tua modestia,
se lodato non sei,
ogni nome minor d’un nume è poco
a tue grand’opre. Intanto
parte gli ossequi suoi
tra il sommo Giove, e te, l’anima mia.

ERMOSILLA
Usimano
Andiamo a Dario omai.

CLORIDASPE
Andiamo, e tutti i dèi vengan con noi.

Scena tredicesima
Vaffrino.

[Aria]

Oh volesse il destino,
che il complimento, cortigiano giotto,
metter facesse la mogliera al lotto;
se a dadi, o a sbaraglino
si potesser giocare i matrimoni,
rido si farian tutti i cantoni.
IIº
Dar a cambio denari,
usure suol fruttar doviziose,
più giovarebbe il dar a cambio spose.
O che guadagni cari,
senza tanto versar sopra i puntigli,
ogni casato abbonderebbe in figli.
IIIº
E, se d’un padre solo,
nasce posterità di buon talento,
che saria poi, se avesse padri cento?
Or m’incammino a volo
ad ammogliarmi in qualche Bradamante,
e trafficarla a cambio del contante.

Scena quattordicesima
Reggia di Dario.
Dario. Tersandro. Messo.

DARIO
Curioso pensiero, impaziente,
ogni riposo da quest’alma esclude,
poco lontano è il campo,
e non perviene ancora avviso alcuno.

TERSANDRO
Pur anch’io verso in numerar momenti,
attendendo novelle, e mal non temo.

MESSO
Rallegrati, signor, gioconda il seno
di letizia sublime. Il re d’Arabia,
che alle battaglie, e alle vittorie è nato,
sin ne gli alloggiamenti
delle nemiche genti, ha posto il ferro,
gl’eserciti ha svenati, acceso ha il foco
nel bagaglio real nei padiglioni,
nella virtù guerriera,
ha lasciati di vista i paragoni.
Ferito lievemente, egli è rimasto
prigione dell’armeno;
ma un forte avventurier principe ignoto,
con due mila de’ nostri
datigli da Brimonte,
è volato al nemico; e impetuoso
sbaragliate le squadre,
atterrati i ripari,
sforzate le trincee, rotte le genti,
l’arabo ha liberato.
E tosto ritornar tutti vedrai
di glorie ricchi, e delle spoglie onusti.

DARIO
Cieli, son l’opre vostre,
indirizzate a beare i voti miei;
io già di voi mi dolsi,
di gioia or sopraffatto,
i lamenti mortifico, e ritratto.
Iracondo calor, che già m’accese,
bestemmiator mi rese,
da’ favori confuso,
sotto flagel di grazie or io m’accuso.
T’eleggo cavaliero,
e nel persico seno,
almirante sarai,
all’armata naval comanderai.
Ma chi s’intende, o si discorre almeno,
che sia l’avventuriero?

MESSO
Brimonte no ‘l conosce; è giovinetto,
né sul mento l’età nubi ingerisce.
L’elmo non lascia rimirar la fronte.
Par ch’egli rassomigli una donzella,
che testé nel giardin servì a Statira.

DARIO
Un di voi vada ad avvisar Statira;
e la conduca qui.

Scena quindicesima
Cloridaspe. Dario.

CLORIDASPE
In virtù del tuo nome,
signor ch’all’armi tue, prodezze spira,
dell’armeno tiran, ruppi le squadre,
lieve punta ferimmi: e ‘l sangue mio
corse ad imporporar per mio decoro,
di questa fronte, il sudor vivo. Ho vinto.
Non avrà più la Persia
disturbi dall’armeno violente,
ch’è rimasto senz’armi, e senza gente.

DARIO
Da questo abbracciamento,
imperlato di lacrime, ricevi,
alto re del mio cor gl’obblighi muti.
È gloria del tuo merto,
la mia confusion. Parleran l’opre,
della mia gratitudine immortale.
Qualche purgato, e peregrino inchiostro
rugiada della fama,
che nodrisce all’onor perpetui fiori,
balsamo, che presenta
le memorie da gl’anni,
succo predestinato,
ad eternare in terra i nomi, e l’opre
de gl’eroici tuoi gesti, e de’ costumi,
scriverà lunghe istorie alti volumi.

CLORIDASPE
Serba queste parole preziose,
e formin aureo intaglio in pario marmo
che l’ossa mie racchiuda, anzi ravvivi.
Colà dentro interrate le mie polvi,
giurate sian dall’universe genti,
di decoro trofei non della morte.
Lode, che vien da lodator lodato,
di tesoro sovran regala il merto,
ed oppone al sepolcro un cielo aperto.

Scena sedicesima
Dario. Statira. Cloridaspe.

DARIO
Statira, è giunto il dì, che a Cloridaspe
tu renda grazie d’opre in nome mio.
Da te sublime re conosco il regno,
a te con mia Statira ora lo dono.
Privata vita, amerò meglio. E gl’anni
possederò così forse più lunghi;
re vissi a gl’altri, in mille cure oppresso,
privato, in pace viverò a me stesso.

CLORIDASPE
La sposa accetto, il regno non rifiuto,
ma sia tuo sin che vivi. E vivi sempre.

DARIO
Quest’aureo scettro a te rinuncio al dono
in riguardo al tuo merto,
e d’ogni azione mia la più sublime;
dell’uman, del regal trascendo il modo,
e sei tu causa, che me stesso io lodo.

CLORIDASPE
E come re di Persia, e re d’Arabia,
della tua maestà m’umilio al trono,
e sopra me medesimo io ti corono.

STATIRA
Ho sospirato in tempestosi orrori,
dolce dell’alma mia porto felice,
a te giungo, in te godo,
avvinta, e stretta in un perpetuo nodo,
fatta è cor la mia lingua,
palpita, non ragiona;
ma sia core, o sia lingua a te si dona.

CLORIDASPE
Nel ciel del tuo bel volto,
l’amorosa mia febbre oblia sé stessa.
Fui prigion, fui ferito,
a patir tanti casi, un cor fu poco;
novelle glorie ad influirmi invoco.
Son da tanti accidenti,
complicati, e diversi,
combattuto, e confuso,
che quasi d’ogni senso ho perso l’uso.

Scena diciassettesima
Usimano. Statira. Dario. Elissena. Cloridaspe. Floralba.

ERMOSILLA
Usimano
A’ tuoi piedi, o Statira, o Dario, inchino,
con le ginocchia il cor, le voci, e l’uso.
Son Usiman d’Egitto, amor per fama
di Statira mi accese. Io qui vestito
da donzella servii, finto Ermosilla;
scoperto poi, tra Cloridaspe, e lei,
ardente affetto, disperato andai,
ove la sorte incamminò miei passi.
Liberai Cloridaspe di prigione;
ed a Nicarco, che oltraggiommi, il ferro
gl’ardimenti domò, gl’orgogli oppresse.
Del giardin penetrato
chiedo perdon, se dove amor comanda
l’obbedire è peccato.

DARIO
Levati, prence glorioso, e nosco,
godi tranquillità dopo gli affanni.
Cloridaspe da te tolto di mano
all’armeno crudele,
ogni tua colpa fa innocenza.

ELISSENA
Anch’io
mi getto ai piedi vostri, e perdon chieggio.
Nicarco allor, che tu d’Arabia o re
moribondo giacevi già molt’anni,
rubò Lindaura, e la volea per moglie,
se tu morivi, e pretendeva il regno.
Ma, risanata poi la tua persona,
Nicarco a me donò Lindaura, e disse
che la tenessi occulta; e di Floralba
l’imposi il nome, e per timore io tacqui.
A Statira donai serva Floralba;
ella è Lindaura principessa, e suora
di te gran Cloridaspe.
Dona signor cortese,
se tu vuoi far un parallelo ai dèi,
alla clemenza tua gli errori miei.

CLORIDASPE
Principe egizio, la tua mano irata
tolto ha dal manigoldo, il generale,
troppo onorasti d’un fellon, la morte.
Man regale, che svena,
immortala l’ucciso.
Scopri il petto, o donzella,
ond’io possa veder l’astro fatale,
della casa d’Arabia contrassegno.

FLORALBA
Lindaura
Ecco il seno, e la stella,
in mio favor la verità favella.

CLORIDASPE
Lindaura mia t’abbraccio,
e di dolcezza io piango. Alzati o vecchia.

ERMOSILLA
Usimano
Arabo re, la tua sorella in moglie
dona a me. Sia l’Egitto
unito eternamente,
dell’Arabia ai tre regni. E ‘l vasto Nilo
con dubbio corso, equivocando fede,
a’ tuoi regni, ed a’ miei
con labbra di cristal ribaci il piede.

CLORIDASPE
Lindaura è tua. La libertà mi desti,
io la suora ti dedico, e ti dono.

FLORALBA
Lindaura
A te mio sposo giuro fede; sia
Giove il nostro imeneo; da questo die,
comincino felici
a radicarsi in te le glorie mie.

[Insieme]

TUTTI
Viva Dario, Statira, e Cloridaspe,
Usimano, Lindaura,
Arabia, Persia, Egitto,
e sia di tutti il glorioso nome
in adamante impresso, in oro scritto,
ed in ogn’alma sempre, e in ogni core
abbia fede la pace, e regno Amore.

Fine del libretto.