L’isola di Alcina

Tragedia posta in musica.

Libretto di Fulvio Testi.
Musica di Sigismondo d’India.

Prima esecuzione: anno 1626, Modena, mai rappresentata.

Interlocutori:

ARIOSTO sconosciuto
NOTTE (prologo di Sacrati) sconosciuto
ALBA (prologo di Sacrati) sconosciuto
AURORA (prologo di Sacrati) sconosciuto
ALCINA sconosciuto
LIDIA cameriera d’Alcina sconosciuto
RUGGIERO sconosciuto
MELISSA maga sconosciuto
IDRASPE ammiraglio d’Alcina sconosciuto
NUNZIO sconosciuto
ASTOLFO sconosciuto

Le sirene. Coro di Cavalieri trasformati da Alcina. Coro di Damigelle d’Alcina.

Libretto – L’isola di Alcina

Illustrissimo… (ediz. 1648 di F. Sacrati)
Illustrissimo e reverendissimo sig., fra ‘l numero de miei più riveriti patroni scelgo v. s. illustriss. per iscopo alla mia divozione, e per protettore ad Alcina. A ciò mi promove il desiderio di veder consolata questa infelice, la quale non avrà per l’avvenire a dolersi di rimanere abbandonata dall’amante, mentre venga benignamente accolta sotto il patrocinio di v. s. illustriss. in cui troverà qualità eroiche più che in Ruggiero. Inoltre s’aggiunge ad un mio divotissimo genio versola grandezza del suo merito il comando dell’illustriss. sig. Cornelio Malvasia, che me l’ha additata per cavaliere, di cui la protezione basti a render ragguardevoli, e rispettati, non solo gli errori della mia musica, ma anche le colpe d’una maga. Resta, che v. s. illustriss. non isdegni, come umilmente la supplico, d’aggradire quella riverenza, con la quale consacro ossequiosissimamente me stesso, e quanto mi sono alla sua padronanza: ch’io anderò poscia ambiziosamente gloriandomi di vivere

Di v. s. illustriss. e reverendiss. umiliss. ed divotiss. servitore
Francesco Sacrati

Lettore… (ediz. 1648 di F. Sacrati)
Se rozza ti parerà la musica dell’Alcina, scusala, ti supplico, o lettore, ché nata fra le rozzezze della villa, non può esser che tale. Per ingannar l’ozio, mi diedi a comporla, mentre a Panzano, delizie volerecce, dell’illustriss. sig. Cornelio Malvasia, attendevo il di lui ritorno dal campo; non con pensiero, che giammai ella avesse a rendersi ardita di comparire ne’ pubblici teatri di Bologna, ma perché chiusa in un scrigno vi rimanesse, o depositata, come tesoro tratto dalla miniera dell’ingegno del gran Testi, o imprigionata, come rea della mia temerità. Ella comparisce ora vergognosa, e timida sotto a gli occhi di sì nobili e virtuosi spettatori, perché più deve arrossarsi d’esser coperta de panni, de’ quali io l’ho vestita, che di farsi vedere nella sua natural nudità. Se la mirerai con gli occhi dell’intelletto, come figlia bellissima d’un ingegno inimitabile, la conoscerai per incapace d’emenda. Se l’apprenderai con l’intendimento dell’orecchio, come parto involto nelle diformi fasce della mia musica, non conoscerai in lei altr’orma di bellezza, che quella dell’armonia, ch’ella ereditò dalla paterna cetra. Averti inoltre, che se la vedrai introdotta su la scena da un prologo diverso da quello che ne’ suoi primi natali la condusse sotto gl’occhi de’ principi estensi, è opportunità ricercata dal tempo, e dal loco dove ha da rapresentarsi. Non avrà perciò a spiacerti, che in vece dell’Ariosto, la Notte, l’Alba, e l’Aurora preludano ad un’opera che merita fra l’altre nome di Sole, tanto più, ch’elle parlano con voci sugerite loro da uno de più canori cigni, del nostro secolo. Compatisci a’ miei errori, e vivi felice.

 

Prologo

Scena unica
Ariosto.
Quell’io, che volto a celebrar gl’onori
degl’avi incliti tuoi, cantai con tromba,
che sì chiara pe ‘l ciel anco rimbomba
le donne, i cavalier, l’arme, e gl’amori.
Da elisia magion, felice regno
de l’anime beate, ove mi vivo
di sì lieti imenei al suon festivo
ebbro di gloria, o grand’Alfonso, io vegno.
E poiché d’onorar ne’ regii tetti
coppia sì gloriosa hai pur desio
non isdegnar, ch’in questa scena anch’io
nuova materia accresca ai lor diletti.
Calzi l’aureo coturno, e canti Atena
di coronata turba opre funeste,
qui cada esangue Egisto ivi a Tieste
apparecchi il fratel l’orribil cena.
Ma d’ogni sangue immacolato, e puro
sian l’italiche scene, e bastin solo,
per destar in altrui pietate, e duolo,
d’amante cor le non mortal sciagure.
D’innocenti sospiri oggi, e di pianto
sparga il teatro abbandonata Alcina,
e tornando a l’antica disciplina
esca Ruggier dal dilettoso incanto.
E voi, s’alcun pur v’ha cui l’alma accenda
lusinghiera beltà del cieco ardore,
prendete esempio, e di Ruggier l’errore
siavi scusa al fallir sprone a l’emenda.
Non sempre è bel ciò, c’ha di bel sembianza,
e spesso offende più quel che più piace,
poscia che d’un gioir vano, e fugace
null’altro al fin, che pentimento avanza.

 

Variante del prologo (ediz. 1648)
Prologo dell’edizione del 1648 musicata da Francesco Sacrati.
La Notte – L’Alba – L’Aurora
La Notte
Poiché con lieve infaticabil volo
corsi gli eterei campi
abbelliti, e fregiati
da luminosi aspetti
onde imparo il sentier per l’ombre oscure
e poiché immersi in sonnolento oblio
le terrene fatiche,
girando il corso a l’ampia mole intorno,
venni a portarmi in sul confin del giorno,
a celarmi vicina,
per conceder lo scettro al re de’ lumi
deporrò la corona,
di papaveri ordita,
né vorrò, che mi piova
da le faci stellate oro sul crine.
Già co i bruni corsieri,
che sbuffan per le nari
caliginosi fumi,
da l’aereo camino
al tenebroso speco il carro inchino.
Giuro a voi, che mirate
ceder la notte al dì gli uffici alterni,
che mai più densi, e fortunati orrori
non adunai, per favorir cortese
di prigionieri amanti
la libertà, gl’incanti.
E chi non sa, che ne’ silenzi muti,
e sotto il manto, onde la terra adombro,
mormoran fiere note,
e festive, e felici
si ricovran le sagge incantatrici?
A le profane voci
di venefica lingua
so, che talora imbruna
il puro volto suo l’argentea luna,
vedrà però nel suo splendor sereno
il portator de la diurna luce
d’alti duci i contenti,
d’un’empia maga i disperati eventi.
Entro il gel de la notte, in cui s’accese
fiamma d’infausto amore
s’ammorzerà sì violento ardore:
ma che più tardo, o cielo,
vago d’aurata luce?
Perché non lascio il campo
al luminoso duce?
Io che d’ombre mi vesto, e ‘l mondo oscuro
consegnerò l’albergo
a chi fugar mi suole.
Meglio l’opere altrui discerne il sole.
L’Alba
Di perle non m’adornino
il crin le ninfe, che ne l’onde albergano.
Liete soggiornino
fin ch’io torno, e ne l’acque i volti immergano
io del ciel gl’involo a gli orti.
Per mia man s’inargentano
de l’aria i campi, ove le rose abbondano.
Già si spaventano
le stelle al mio sembiante, e gli ori ascondano.
Se del sol più l’oro stimo,
pria nel ciel l’argento imprimo.
Da la mia bocca spirino
aure, che più veloce al ciel mi levino.
Stese si mirino
l’ali, ch’ad alta meta il piè sollevino.
Se in un tratto il dì s’inalba,
è virtù d’un volo d’alba.
L’Aurora

AURORA
Per ammantarti di purpurea veste
a che traggi nel mar lunga dimora?
Affretta il volo, o neghittosa Aurora,
pallido è il dì senza il rossor celeste.
L’emisfero lassù perda i candori,
se con sferza di rai le nubi offendo,
io le porpore belle al mar togliendo,

"Dimmi il mio nome prima dell'alba, e all'alba vincerò"
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